SCRIPTORIUM TELEMATICUM DI NOMOLOGIA (Scienza Critica della Legge e della Legislazione)

dedicato a
"MARSILIO DA PADOVA"
________________________________________




SOMMARIO :

I) Che cos'è la Nomologia .
II) Nomologia come Nomoepistemica (concetti teoretici di Giustizia e di Legge) .
III) Nomologia come Nomografia Critica .
IV) Nomologia come Antitesi del Diritto tradizionale .
V) Essenza pubblicistica della Nomografia .
VI) Nomografia civile (costituzionale, amministrativa e privatistica), penale, militare, procedurale .
VII) La formazione nomologico-didattica, in relazione alle professioni docente, costituzionalista, giudiziaria, forense e notarile, nell'Università o nell'ambito di studi superiori .





MOTIVAZIONE DELLA DEDICA

Come per il precedente Scriptorium (utilizzo questo termine nel senso già datogli nel precedente, sulle discipline teoantropologiche), spiego il motivo della dedica: Marsilio da Padova, vissuto nel XIV secolo, amico di Guglielmo di Ockham, va considerato il primo grande teorico di filosofia politica e di Diritto pubblico nel Medioevo, fondati su una concezione democratica e maggioritaria, almeno per quanto riguarda il suo “Defensor Pacis”, opera che va oltre il ghibellinismo che gli viene attribuito, ponendo le basi per uno Stato repubblicano moderno. Ciò è ampiamente confermato anche dalla parallela concezione gnoseologica, che sostiene, fondando con ciò una tipica tradizione italiana in tal senso approfondita da Gianbattista Vico e, nel secolo XIX da Mazzini e Cattaneo così in Inghilterra dallo Spencer, la natura sociale, collettiva, della conoscenza, che non può ridursi alla semplice acquisizione di notizie dall’esperienza diretta del singolo o da princìpi innati sempre nel singolo astratto individuo (così come pretendevano le concezioni razionalista ed empirista del XVII e XVIII secolo). Che poi Marsilio, in opere come il “Defensor Minor”, sembri spostato su posizioni ghibelline o laico-monarchiche, ciò è esclusivamente dovuto a necessità di sopravvivenza, tipiche di tempi nei quali la dipendenza economica da sovrani o da principi, per gli uomini di cultura (vedi lo stesso Dante), era inevitabile, non avendo fonti di reddito proprie o essendo loro state confiscate da altri .



CHE COS’ E’ LA NOMOLOGIA

Il termine “nomologia” è utilizzato in Grecia, negli Stati iberici ed in altre situazioni (ad es., nel Diritto canonico) come sinonimo di Diritto o giurisprudenza, ovvero filosofia etico-giuridica. Nel XIX secolo, il termine era stato creato piuttosto per esprimere l’esigenza di una razionalizzazione del Diritto stesso, di trasformarlo in una Scienza della Legislazione, epistemologicamente fondata, sulla scia di quanto già predisposto dalla Filosofia del Diritto nel XVIII secolo, in modo tale da liberarsi dalla tradizione religiosa e magica connessa col vecchio Diritto romano. E’ in questo senso più specifico e rigoroso che io, in queste pagine, voglio esporre i princìpi di una dottrina critico-sistematica per una Scienza della Legge e della Legislazione, contribuendo, senza alcuna falsa modestia, alla liberazione da catene tanto vecchie ed arrugginite, quanto contorte e tuttavia resistenti, che non infestano solo il Diritto italiano, ma in generale il Diritto di ogni Stato .




NOMOLOGIA COME NOMOEPISTEMICA (concetti teoretico-ontologici di Giustizia e di Legge, epistemologicamente fondati) .


La nomoepistemica è la disciplina nomologica che si occupa dei concetti supremi di Giustizia e di Legge, fondati ontologicamente, metodologicamente, razionalmente, con la consapevolezza, altresì, che tale disciplina o branca della nomologia non vive da sé ma in stretto rapporto con tutta la conoscenza scientifica, specialmente con ciò che riguarda il comportamento umano (psichico e morale), i suoi condizionamenti materiali, fisiologici e patologici; così ancora le stesse scienze del mondo fisico, condizionando quest’ultimo il corpo umano e la sua azione concreta, non possono essere escluse dall’ambito degli studi della nomologia, in quanto nomoepistemica e in quanto nomografia critica .
Il primo aspetto da sottolineare della nomologia, in quanto epistemica, è che essa è una scienza dell’uomo sull’uomo e per l’uomo, e che parte dalla ricerca, dallo studio e dalla progressiva determinazione del comportamento umano in riferimenti a due fattori morali e teoantropologici: la Giustizia e la Legge .
La nomoepistemica, nella sua ricerca e ridefinizione di un concetto universale di Giustizia, si chiama dikologia (adattamento dal greco Dike, giustizia, e Logos, discorso, scienza, ecc.: dunque, “Scienza della Giustizia”). Nel Diritto classico, come meglio si vedrà più avanti, la Legge si fonda, da una parte sulla pretesa “rivelazione” (di natura religiosa), dall’altra, non essendoci di fatto alcuna rivelazione diretta, ma solo un’elaborazione umana incerta, sulla Forza materiale. Colui che detiene la Forza materiale (Stato, sovrano), detiene anche la Legge e, dunque, il Diritto. Ora, fondando il Diritto di fatto sulla Forza, si riduce il Diritto ad un semplice suo strumento, ad un suo travestimento, con ciò togliendogli ogni base razionale ed ontologica. Chi detiene la forza, detiene la Legge e la sua applicazione nei casi specifici, per le singole situazioni: ora, un tale fondamento rende i concetti giuridici fragili e variabili, tali da dover essere continuamente rivisti e corretti, ma senza un criterio metodologico sicuro. Di qui si varia ad un principio di sovranità, talvolta concentrato in qualcuno, talaltra allargato a molti.
Veniamo dunque al concetto di Giustizia che deve costituire il fondamento della Scienza della Legge. Nel senso primo ed assoluto, Giustizia è la coincidenza dell’Essere col Dover Essere, in modo che ciò che è, coincida anche con il suo apparire, il suo concreto e reale esistere. La Giustizia, in assoluto, implica dunque piena staticità e stabilità, non vi può essere trasformazione, ovvero negazione totale o parziale. Ciò che è, in quanto è, non può essere diversamente, né ontologicamente, né nel pensiero o nella conoscenza, da quello che è. Nello Scriptorium sulle discipline teoantropologiche, ho sostenuto che tale coincidenza non vi è che in Dio, ma in sede nomologica dobbiamo concepire tale coincidenza indipendentemente da questo concetto, altrimenti gli atei e gli agnostici sarebbero posti al di fuori dall’applicazione della nomologia, in quanto rispettivamente la negazione o il dubbio sull’esistenza di Dio toglierebbe ad essi quel fondamento nell’azione da cui pur dobbiamo partire, e toglierebbe ogni denominatore comune razionale. Giustizia non è, dunque, come sostenevano i giuristi romani e poi i loro imitatori, “dare a ciascuno il suo”, perché appunto il concetto di proprietà deve essere derivato da quello di Giustizia, e non la Giustizia da quello di proprietà. Inoltre, il “suo”, il “mio”, ecc. devono essere dimostrati validi sia in generale, sia nel rapporto tra noi e le cose. Ad esempio, l’attribuzione della proprietà val bene nel rapporto con le cose, ma non egualmente con le persone e, in certa misura, neppure con altri esseri viventi (ma questo richiederebbe ulteriori approfondimenti). Quando Triboniano o Papiniano affermano che nel Diritto naturale non si possono avere schiavi, mentre per il Diritto positivo la schiavitù è legittimamente ammissibile, dicono un’assurdità evidente. Eppure, tale assurdità non solo è durata per secoli, ma in certa misura dura tuttora, sia pure mascherata in forme molteplici. Quando diciamo “mia” moglie o i “miei” dipendenti, la cosa suggerisce un rapporto di proprietà e di dipendenza di tali persone, come se fossero oggetti, dalla mia persona, mentre ciò è assolutamente estraneo ad un concetto di Giustizia, che non può ammettere contraddizione tra una Legge naturale ed una Legge positiva, ed eticamente non può ammettere dipendenza di una persona da altre persone (in sede di teoria sociale ciò significa propriamente che non deve mai esserci rapporto di dipendenza tra due o più persone nel lavoro, ma uno scambio paritario di attività produttiva da un lato, di remunerazione in denaro - onerosa, dicono i giustradizionalisti - dall’altra) .
Ora, mentre questa Giustizia è assoluta nella sua dimensione logica ed ontologica, non altrettanto può dirsi nel rapporto col mondo fisico. Nel mondo fisico, che come abbiamo visto nello Scriptorium per le discipline teoantropologiche, è mutevole, non esiste propriamente una coincidenza tra Essere e Dover Essere, semmai la tendenza progressiva alla corrispondenza tra un Dover Essere, ontologicamente assoluto ed incontraddittorio, e un essere relativo, imperfetto, progressivo o anche regressivo (quest’ultimo tuttavia provvisoriamente, se riteniamo che il Progresso in generale sia la regola e non l’eccezione, nel processo di trasformazione della materia). Così se Giustizia e Legge, nel senso loro assoluto coincidono, nella natura tali concetti divergono. La Legge in natura è sì una coincidenza tra Dover essere ed essere, ma in senso relativo, limitato, parziale. La Legge, nel mondo fisico, non è che applicazione del principio logico di conseguenza: “poste determinate condizioni, coagenti, la conseguenza non può che essere una ed una soltanto”. Tale principio non è che deduzione del principio di non contraddizione relativamente a situazioni molteplici, reciprocamente influenti, e variabili, condizionate. Se le condizioni A, B, C rimangono fisse, e fin tanto che rimangono fisse, la conseguenza X sarà sempre uguale. Questa è, dunque, la legge fisica: poste determinate condizioni, sperimentali o di osservazione, il risultato non può che essere uguale. Di qui, la ripetibilità di un esperimento in sede fisica: quando gli elementi, i fattori di tale esperimento sono sempre uguali, sia quantitativamente, sia qualitativamente, il risultato continuerà a essere lo stesso. Ovviamente, basta che uno dei fattori, anche minimo, cambi, perché il risultato cambi di poco o di molto qui non importa.
Nella dimensione del comportamento umano, i concetti di Giustizia e di Legge si modificano ulteriormente, perché devono tener conto sia del senso assoluto (logico ed ontologico), sia del senso relativo, fisico o materiale, essendo il comportamento umano legato e condizionato da fattori fisici (il suo corpo, l’ambiente nel quale opera). L’essere umano è duplice nella propria struttura ontologica: ha un pensiero, una volontà, che si pongono determinati obiettivi, ma la possibilità di raggiungerli è condizionata tanto dagli altri individui con cui convive, quanto dai fattori fisici corporei ed ambientali. Dunque, il suo pensiero e la sua volontà sono assolutamente liberi nel porsi quegli obiettivi, ma lo sono assai parzialmente nel realizzarli. Essendo, pertanto, relativa e limitata la sua libertà d’azione (assoluta come consapevolezza degli obiettivi, limitata dagli ostacoli non dipendenti dalla propria volontà), è anche relativa e limitata la propria responsabilità d’azione. Il concetto ontologico di Giustizia umana (ovvero, realizzabile dall’uomo) appare piuttosto una coincidenza potenziale, tendenziale tra Essere e Dover essere, piuttosto che una coincidenza assoluta. La Giustizia è, nell’azione umana individuale e collettiva, un’aspirazione, una tendenza, una volontà, piuttosto che una realtà effettiva. L’etica ci impone di avvicinare quanto più si può, individualmente e collettivamente, la nostra azione alla coincidenza tra Essere e Dover Essere, tuttavia nei fatti vi sarà una corrispondenza sempre crescente, ovviamente in quanto e per quanto l’umanità o il singolo uomo, le varie istituzioni ed organizzazioni, opereranno in tale senso. Essendo esseri fisici, gli uomini tuttavia operano anche secondo la legge di inerzia, e di resistenza al cambiamento, né più, né meno di tutte le altre entità fisiche .
Guida all’azione umana, per realizzare la desiderabile corrispondenza crescente tra Essere e Dover Essere, è la Ragione logica ed etica. Evitare la contraddizione, sia nella formulazione del proprio pensiero, sia nella conoscenza del mondo fisico, sia nell’azione verso il mondo fisico e verso gli altri uomini, è necessario per far corrispondere essere (ancora parziale e provvisorio) e Dover Essere (o Essere Assoluto). Il rigore logico e morale è la necessaria premessa perché tale corrispondenza si realizzi, e tale rigore deve realizzarsi nell’intimo dell’uomo come nel rapporto con i suoi simili e con l’ambiente in cui si trova. A questo punto, la Scienza della Legislazione pone il suo fondamento che è insieme morale e politico, individuale e collettivo. La natura morale della nomologia, e delle sue singole branche, natura morale che è insieme anche politica (nel senso di rapporto collettivo, sociale tra gli uomini, nella loro organizzazione), è stabilita. Uno dei primi fondamentali errori del Diritto tradizionale è quello di separare drasticamente se stesso dalla Morale e dal principio della Giustizia (termine usato solo strumentalmente e propagandisticamene nella varie formulazioni, come in “Palazzo di Giustizia”, “Ministero della Giustizia”, “E’ stata fatta giustizia”, ecc.).
La Giustizia umana formula dunque la Legge prima, che è quella del costante adeguamento dell’essere (limitato e relativo) al Dover Essere e all’Essere assoluto, ovvero al Bene Supremo. Il Progresso è, pertanto, Dovere dell’Umanità, continua ascensione al Bene Supremo. Ogni atto dell’uomo che contraddica a tale ascensione, che la rallenti o che addirittura vi si opponga, è un atto da giudicare e condannare, non in una dimensione extrafisica, ma proprio nella dimensione fisica. Qui abbiamo già il fondamento della nomografia penale, di cui si riparlerà nel paragrafo correlativo. Ogni atto dei singoli e della globalità umana deve essere quindi regolato sulla base di tale Legge, per cui Essa vada articolandosi o ramificandosi in leggi specifiche le quali, proprio perché interpretazioni umane, saranno imperfette, ma perfettibili .
Ultimo aspetto da rilevare: la nomologia è in generale non solo scienza multidisciplinare, ma è anche interdisciplinare, nel senso che in essa si coordinano e si subordinano scienze e discipline correlative al tema della Giustizia e della Legge, prevalentemente sull’uomo, sul rapporto tra gli uomini, ma anche sul rapporto uomo-ambiente e uomo fisico–uomo psichico e morale. Soltanto attraverso questa visione interdisciplinare dei problemi della Giustizia e della Legge, essi potranno essere correttamente impostati e progressivamente risolti .


NOMOLOGIA COME NOMOGRAFIA CRITICA .

Posta e risolta la questione ontologica ed epistemologica della Giustizia e della Legge, occorre passare alla nomografia, in quanto formulazione, descrizione ed esposizione della Legge nelle sue specifiche determinazioni, ovvero le leggi. Ogni atto umano, che abbia conseguenze sugli altri uomini, deve essere regolato da una legge. Che tale legge sia scritta o non scritta, decisa da organi specifici o concordata tra le sole persone interessate a quel determinato atto, per ora non è rilevante anticipare. Ciò che è essenziale è che tale atto sia regolato secondo criteri razionali, logici e morali. Ma se ogni atto è regolato in tal modo, il criterio ed il principio che determina la Legge, generale o specifica, è quello dell’uguaglianza. Di qui, il prncipio assodato, ma tutt’altro che applicato, che la Legge è uguale per tutti e che tutti sono uguali davanti alla Legge. Il privilegio, essendo negazione della Legge per definizione, è dunque inammissibile, in quanto contraddice al principio dell’uguaglianza. La Legge deve evitare ogni contraddizione con se stessa e con le proprie singole applicazioni. La Legge deve così prevedere che si tenga conto delle differenze di situazione, ma nell’ambito di ciascuna situazione, il rigore logico deve essere assoluto. Uso il termine “critico” e “critica”, nel senso dato da Kant, ovvero di razionalità come base unica della Legge. Ciò che non è razionale, che non è logico (incontraddittorio nel pensiero), che non è morale (incontraddittorio o coerente nell’azione), ma anche nell’analisi della formulazione, della descrizione e dell’esposizione della Legge, le quali dovranno dunque risultare assolutamente e cartesianamente chiare e distinte, di fatto comprensibili a ciascuna persona che abbia un livello culturale medio (non nel senso di media matematica, ma nel senso statistico di “moda”, ovvero qualità prevalente, livello prevalente di cultura nella popolazione). Solo alla condizione di chiarezza e distinzione una Legge è comprensibile e, in quanto comprensibile, applicabile, ed in quanto applicabile, doverosamente da eseguire. Leggi non chiare, non distinte, non comprensibili non potranno mai essere doverosamente eseguibili, ma solo eseguibili su imposizioni, sulla base della forza o della violenza. Questa è, come si approfondirà successivamente, la differenza fondamentale tra la nomologia e il Diritto tradizionale .
Ora, a chi appartiene il potere di fare le leggi ? Il potere di fare le leggi appartiene, in linea generale, a chiunque è soggetto alla Legge. Siccome tutti sono soggetti alla Legge, tutti sono forniti di un potere legislativo. Ma la Legge non può essere decisa di fatto da ciascuno di volta in volta. Occorre che la Legge sia decisa una volta per tutte e per ciascuno. Ora, in linea di principio, appartenendo il potere legislativo a tutti, tutti dovrebbero contribuire alla sua formulazione, proposizione e votazione. Non potendosi realizzare ciò per l’alto numero degli interessati al potere legislativo e per l’alto numero di gruppi umani materialmente dislocati sul pianeta o in ciascuna parte di esso, appare necessario delegare a qualcuno tale potere. La delega attribuita agli eletti è da considerare condizionata e relativa, non assoluta. Il cosiddetto “mandato alla decisione” deve tenere conto della volontà dei mandanti .
Ma, ancora, la volontà dei mandanti, di fatto, non è univoca: ogni mandante ha un suo personale progetto, una sua personale proposta, un suo personale obiettivo che, a suo parere, meglio corrisponde ai princìpi di Giustizia e di Legge, meglio aderisce ai princìpi e criteri logici e morali di valore universale. Dunque, essendo impossibile sintetizzare, fondere o aggregare tutte queste posizioni, la legge specifica verrà decisa con un criterio di maggioranza e non di unanimità, non perché questa sia meno giusta (anzi), ma perché irrealizzabile di fatto tra le varie differenze. La maggioranza minima da considerare come valida è quella della metà più uno degli aventi diritto al voto, anche nel caso probabile che non tutti gli aventi diritto al voto votino effettivamente. Poniamo che i delegati siano 100 e che rappresentino la totalità della popolazione; ma di questi votino soltanto il 50 %. Di questi 50, approvino una certa legge 26 delegati, avremo che ben il 74 % non sia rappresentato nell’approvazione. Dunque, è inesorabile applicare una norma che intenda il 50 % più uno degli aventi diritto e non il semplice 50 % dei votanti effettivi. In tal modo, avremo sempre 51 votanti e voti favorevoli contro il 49 % di non votanti e votanti in modo diverso. Di qui la necessità che vi sia un numero minimo di votanti (cosiddetto quorum), sia nelle assemblee apposite, sia in quelle assemblee straordinarie che maggiormente rappresentano l’intera popolazione (plebisciti, referendum, votazioni popolari). Nessuno deve pensare che il principio maggioritario funzioni a piacimento solo con i presenti ed effettivi votanti, col pretesto che “gli assenti hanno sempre torto”, e simili, perché se ciò può essere accettabile su un piano puramente morale (consuetudinario o di costume), non può essere ammissibile, né logicamente, né moralmente sul piano di una legislazione che valga per tutti e che tutti debbano eseguire. In sostanza, una legge approvata da una minoranza assoluta, non rappresentativa almeno di una maggioranza assoluta, va considerata nulla ed inefficace, ovvero espressione non di un regime democratico, ma di un regime oligarchico e dittatoriale .
Come si è anticipato, l’Organo legislativo, che ha ricevuto l’incarico di proporre, formulare ed approvare la legge, ha il preciso dovere di procedere secondo criteri logici e morali, di evitare disposizioni ingiuste, assurde, inapplicabili, contorte. La Legge, chiara e distinta, deve essere comprensibile ed applicabile per tutti; la sua formulazione deve dunque essere tale che sia facilmente reperibile, leggibile, conoscibile, attuabile. Tutte le norme legislative devono essere ordinatamente e logicamente raccolte in un Corpo dei Codici legislativi, disponibile per tutti e dove tutti trovino ciò che è necessario, quando devono fare o procedere in un certo modo, nel rapporto con gli altri o con le Istituzioni. Le leggi non sono gomitoli da arrotolare e srotolare a piacimento, con aggiunte e tagli (procedure queste di largo uso), ma devono essere ordinate con procedure deduttive, dall’ordine costituzionale all’ordine più specificamente amministrativo, e devono essere di facile reperibilità. In ogni casa dovrebbe essere presente un testo corrispondente al Corpo dei Codici legislativi, di cui poi si dirà in maniera più dettagliata .
La Legge, come ciascun testo orale o scritto, è sì interpretabile, ma non ad arbitrio o a piacimento di chicchessia (compresi i professionisti della Legge stessa). Essa, chiara in sé come si è detto e si ribadisce, ha carattere generale ed impersonale (universale ed astratta, dicono i giuristi tradizionali), non entra nella specifica situazione. Dunque, i criteri di interpretazione devono essere fondamentalmente due: paragonare il caso specifico, la situazione del momento in esame con il modello o fattispecie generale prevista; inquadrare sempre tale caso specifico concreto nel quadro del sistema delle leggi, ovvero tutti i modelli o fattispecie collegabili razionalmente al caso in esame, in quanto ben difficilmente un singolo caso coinvolge una sola fattispecie, ne può coinvolgere varie. Pertanto, nel cercare di interpretare il singolo caso normativo dovremo in concreto inquadrarlo in una situazione più vasta sia per il fatto in sé, sia per il sistema di leggi in cui è inserito. Si tratta di interpretare per applicare allo specifico caso, non di interpretare per ingarbugliare il caso specifico .
L’impostazione vale anche laddove la legge sia riformabile: non si riforma aggiungendo o togliendo in modo artefatto (del tipo: aggiungere dopo la parola “assassino” la frase “verrà impiccato con una corda di nylon”, oppure elencando una serie di articoli e commi abrogati, con altre analoghe procedure), ma ripresentando un nuovo testo completo della legge. Poniamo che si tratti di aggiungere un nuovo articolo o comma che sia: ebbene, la stessa numerazione di articoli e commi andrà rivista, senza quegli orribili bis, sexies, duodecies, ecc.. Il cambiamento non deve essere fatto con frasi spezzate, da inserire a cura degli estensori di raccolte, bensì lo stesso legislatore dovrà predisporre un testo completamente riscritto, anche nel caso ipotetico di una sola virgola mutata. Ogni anno dovrà essere cura dell’Organo legislativo di predisporre i nuovi volumi aggiornati del Corpo dei Codici Legislativi, annullando i testi precedenti.
Soltanto con una chiara stesura della Legge si può esigere che il cittadino obbedisca alle norme ivi indicate. Se l’ignoranza non giustifica la violazione della norma, neppure si devono favorire l’ignoranza e l’incomprensibilità, la pluralità di significati e di interpretazioni, soprattutto ben sapendo che nell’applicazione al caso effettivo, le possibilità di confusione aumentano a dismisura .


NOMOLOGIA COME ANTITESI DEL DIRITTO TRADIZIONALE .

Tra la nomologia e il Diritto tradizionale (o meglio Jus o Giure, perché nulla di logicamente diritto, né di moralmente retto vi è in tale prassi), vi è in comune l’oggetto (la Legge), ma l’impostazione del problema e, soprattutto, la metodologia espositiva ed interpretativa sono, e devono essere, completamente diversi, se non addirittura contrapposti. La nomologia, si è detto, è una dottrina critico-sistematica, razionalmente ed epistemologicamente fondata, di natura interdisciplinare. Il Diritto tradizionale è irrazionale, si fonda su una mentalità magica e prescientifica (quando non antiscientifica), di tipo religioso e rivelazionista, col quale la scienza ha un rapporto di comodo o di semplice uso pratico, non di stretta correlazione (*) . Il Diritto tradizionale, intanto, fonda i suoi presupposti su un preteso Diritto divino, che è in realtà un Diritto sacerdotale. Nel migliore dei casi, il Giure può essere considerato come la descrizione di un mondo iperuranio, di derivazione neoplatonica, che nulla ha a che vedere con la realtà umana o fisica, a cui però tale realtà dovrebbe essere sottoposta; al contrario, la nomologia vuol fondarsi sull’unica realtà pienamente conoscibile dall’uomo, che è quella consistente nella Ragione umana e nei suoi fondamentali princìpi.
Chiunque voglia, può verificare confrontando un testo di Diritto privato moderno con uno di Diritto civile romano per vedervi lo stesso linguaggio e gli stessi concetti. Lo stesso può dirsi per il sistema processuale civile che è la copia, rifatta ma non rovesciata, del sistema processuale pretorile romano. Alcune cose sono state addirittura riprese dal Diritto mosaico, ripescato dalla Bibbia. Se uno volesse chiedersi perché, alla cosiddetta toga (che toga non è) dei giuristi, sono aggiunte frange pendule, non lo troverebbe certo nel costume romano, bensì proprio in quello ebraico. Il costume giudiziario, l’uniforme adottata non sono che la sintesi (tramite il Diritto canonico della Chiesa cattolica), tra rito processuale romano e rito ebraico, materializzata proprio in tale abito, che esprime bene tutta l’arcaicità del Giure .
Lo stesso linguaggio, estremamente contorto di tipo gergale (la differenza tra gergo e linguaggio tecnico consiste in questo: il linguaggio tecnico usa termini comuni con un significato specifico, oppure termini artificiali creati per significare fatti o concetti prima non esistenti; il gergo inventa termini incomprensibili non etimologicamente verificabili, risultati da strani impasti lessicali, al solo scopo di non farsi capire da chi non usa quel gergo; il gergo è un codice linguistico ristretto; il linguaggio tecnico è viceversa aperto a tutti coloro che devono poi utilizzarlo in determinate situazioni; non è linguaggio di un gruppo sociale singolo, ma di tutti), risultante da una terminologia prevalente latina medioevale (creata da glossatori e commentatori delle Università medioevali) italianizzata, con aggiunta di termini di derivazione greca e germanica, ora imbastardita con elementi inglesi (l’inglese è la lingua che i vincitori della Seconda Guerra Mondiale hanno imposto al mondo, per meglio asservirlo alle proprie mire, imponendo una cultura tecnocratica e tecnolatrica). Non voglio qui fare esempi: basta che ciascuno apra un dizionario giuridico e se ne renderà conto rapidamente. Lo scopo del linguaggio nel Giure, come Diritto tradizionale di derivazione ebraico-romana, è appunto quello di creare significati plurimi con interpretabilità varia da parte degli operatori nel sistema giudiziario-forense, incomprensibili del tutto o quasi al comune cittadino: ciò all’evidente scopo di ingannarlo e dominarlo .
Se il linguaggio esprime questa intenzione di truffa, di inganno e di dominio sul cittadino comune, i criteri e le premesse dei vari contenuti giuridici realizzano questa intenzione, complicandosi fino all’inverosimile. Il problema non consiste tanto in questo o in quello Stato, in questo o quel regime, quanto propriamente nella mentalità di fondo e di base: ne deriva che tutta la metodologia di lavoro ne esce contorta, adattata agli interessi della classe giudiziaria e forense, nella creazione di forme labirintiche nei concetti e nelle procedure, con divisioni, suddivisioni e dicotomie che non corrispondono a necessità naturali e logiche, bensì per far perdere i profani che vengono coinvolti. Così, ad esempio, gli avvocati risultano indispensabili anche dove non occorrerebbero (perfino gli stessi giuristi, pur esperti di legge, vengono costretti ad adottarne uno), perché ciò che conta non è la narrazione dello svolgimento reale di un fatto, ma i contorcimenti formalistici, la cosiddetta “verità formale o di diritto”. Così, chi esce libero da tutto questo non è il cittadino onesto o comune (colpevole o innocente che sia), quanto il delinquente incallito, il quale sa bene quali procedure utilizzare per non essere perseguito dalla Legge, o almeno per non subire il meritato castigo riducendolo ai minimi termini possibili. Tutto il sistema delle garanzie protegge a menadito il delinquente incallito, piuttosto che l’innocente o il reo occasionale, per cui tutto il sistema mentale che regge il Giure è, agli effetti reali, una continua istigazione a delinquere. Qui, vediamo soltanto il principio di prescrizione: secondo questo, una legge ha vigore per il singolo caso solo entro una determinata scadenza. Se l’atto, vietato dalla legge, è stato compiuto un certo tempo prima, esso non è più tenuto in considerazione, è giuridicamente ammesso, pur essendo la legge che lo vieta ancora pienamente vigente. Il principio di “prescrizione” viene fatto passare come espressione di “civiltà giuridica”, sulla base della “certezza del Diritto”. Se così fosse, l’atto, di cui è espresso divieto, tanto maggiore ha il tempo di prescrizione, tanto minore dovrebbe avere la propria “certezza del Diritto”: il che è totalmente assurdo. Il divieto espresso dalla legge non può essere valido fino alle 24 di un certo giorno, e poi non più valido dalla prima ora del giorno successivo, pur persistendo con gli altri il medesimo divieto. Il fatto stesso di rivelarsi come situazione contraddittoria fa sì che il criterio della prescrizione sia iniquo e tale da creare differenze tra i cittadini di fronte alla Legge stessa, con violazione del principio di uguaglianza. E’ del pari evidente che un simile criterio, che si spaccia per “certezza del Diritto” dia occasione agli operatori giudiziari e forensi di rinviare il più a lungo l’esame del singolo caso, favorendo con ciò stesso l’illecito civile o penale che sia .
Sul Diritto consuetudinario, una delle maggiori sciocchezze dei giustradizionalisti consiste nella favola secondo la quale gli uomini, non si sa ben né come né perché, considerarono insieme o almeno in maggioranza una certa norma o, meglio, una certa prassi come giuridica e giuridicamente eseguibile. Il tutto si connota in un tempo fiabesco nella circonlocuzione “ab immemorabili”, che corrisponde esattamente al “C’era una volta…” delle fiabe. Tale formula fiabesca viene applicata anche a tempi prossimi a noi, e pertanto ben documentabili sul piano dello scritto (ad es., certi diritti di passaggio su un tratto di proprietà privata). Ora, non può esistere un Diritto consuetudinario in questo senso, bensì un Diritto orale. Quando un certo sovrano, principe o capetto, prendeva determinate decisioni e voleva farle conoscere ad un popolo in cui l’analfabetismo arrivava al 90 %, non aveva altro strumento che quello dei banditori, i quali leggevano a voce alta in pubblico disposizioni scritte con l’ordine di eseguire e farle eseguire (formula tuttora vigente). La gente comune capiva quel poco che capiva ed eseguiva per quanto capiva; nel caso che non eseguisse o facesse il contrario, c’erano gli sgherri del signorotto, i quali catturavano l’individuo e gli insegnavano in modo assai brutale ciò che si doveva fare o non fare, magari eliminandolo fisicamente, così che poi non c’era bisogno di spiegargli nulla e senza che, probabilmente, quello capisse reamente ciò che aveva fatto di male per essere tormentato o eliminato. Errano, dunque, i giustradizionalisti a considerare la “consuetudine” come fonte del Diritto oggi, quando gran parte della popolazione sa perlomeno leggere e scrivere, ed errano i legislatori a nominarla. Ogni norma, per essere valida razionalmente, deve essere non solo scritta, ma anche approvata con i criteri e le procedure previsti dalla Legge. Anche questa differente concezione distingue la nomologia dal Giure .



ESSENZA PUBBLICISTICA DELLA NOMOGRAFIA .

Nel Diritto tradizionale, si parte da suddivisioni successive per dicotomie o tricotomie o tetracotomie, senza tener conto delle esigenze reali. In tal modo, queste distinzioni non hanno un valore generalmente razionale ed ancor meno specificamente scientifico: sono pure astrazioni. Si comincia col separare un Diritto divino dal Diritto naturale e questo dal Diritto positivo: il primo, di derivazione biblica o religiosa in generale, sarebbe la Legge di Dio; il secondo il Diritto secondo una Legge di natura, ed infine il terzo quello posto dall’uomo. Ora, poiché è l’uomo sempre a crearsi determinate concezioni, il Diritto divino non è che la Legge di Dio (per i credenti, ovviamente; per l’ateo materialista, si può parlare esclusivamente di Legge naturale), così come vista dall’uomo; la Legge di natura, che vale per ogni essere vivente, non è che l’applicazione al mondo fisico della Legge di Dio sempre come vista dall’uomo, secondo criteri di ragione (per cui dire Diritto naturale e Diritto razionale è dire la medesima cosa). Il Diritto positivo, infine, non sarebbe altro che l’applicazione formalizzata, scritta o anche orale, che l’uomo fa, in sede specifica, della Legge naturale (o, meglio, universale) per ciascun caso previsto dagli Organi preposti alla funzione legislativa. Dunque, tra le tre forme di Diritto dovrebbe esservi continuità e deduzione, non contrapposizione, come per secoli i giustradizionalisti sostennero, tanto da arrivare a concludere che una cosa può essere ingiusta nel Diritto naturale (vedi schiavitù) e giusta in quello positivo. E’ evidente che, sul piano razionale, un’istituzione come la schiavitù, che suppone il diritto di proprietà fra le persone e sulle persone, se non è giusta sul piano naturale, non può essere giusta in quello positivo .
Una fondamentale distinzione del Giure è quella, di derivazione giustinianea ma anche anteriore, tra Diritto privato e Diritto pubblico. Ora già l’aggettivo “privato” è irrazionale, perché dovrebbe trattarsi di “privatistico”, ovvero “sui rapporti tra privati”. Dove vi siano due persone che hanno rapporti tra loro, là è già Diritto pubblico. Facciamo un esempio: finché Robinson Crusoe viveva da solo nell’isola in cui era naufragato, la prassi da lui adottata per sopravvivere poteva pure dirsi “Diritto privato”, perché non implicava che accordo con se stesso, a parte le condizioni imposte dalla natura circostante. Dal momento in cui incontra il selvaggio Venerdì, si crea tra loro un Diritto che è pubblico, ovvero plurale. Gli vieta, ad esempio, atti di cannibalismo, che pure non erano inconsueti per il selvaggio, insegnandogli anche norme di carattere religioso (cristianesimo). Se Venerdì, che, volendo, avrebbe potuto non curarsene e tornare in qualche modo da dove era venuto, nella sua tribù, non lo fa ed accetta più o meno volentieri quelle norme, il Diritto che Robinson gli impone diventa così un Diritto pubblico. Tanto più, in una società dove vi sia un organo specifico che delibera ed impone le norme ai singoli cittadini, lì abbiamo sempre un Diritto pubblico. Quando questo Diritto regola tuttavia rapporti ristretti tra privati (esempio, sul diritto e limite della proprietà, sul matrimonio, ecc.), possiamo parlare di un Diritto pubblico “privatistico”, ma non di un “Diritto privato” così e semplicemente. Che la Legge sia essenzialmente pubblica e che sia, generalmente, pubblicistica, la nomologia, in quanto dottrina razionale, non solo lo ammette, ma lo presuppone come un principio fondamentale. Come altrimenti lo Stato o altra istituzione potrebbero intervenire con norme scritte, con giudizi e con pene, su un fatto che riguardasse un preteso “Diritto privato” ? Se riconosciamo allo Stato ed a suoi specifici organi il potere di formulare, approvare ed applicare le leggi in ogni sede ed occasione, nonché il potere di reprimere abusi e violazioni di tali leggi, lo facciamo logicamente in quanto riteniamo che ogni atto, definito dalla Legge, sia un atto pubblico e non privato. Solo per esigenze di distinzione metodologica e didattica (e non ontologica) distinguiamo il Diritto (o, meglio, la nomografia) in quanto “privatistico”, perché si occupa di rapporti tra privati ma sulla base di una legge pubblica (ad esempio, la Legge non si preoccupa di quante volte o di che cosa si mangi in famiglia, mentre si occupa delle eventuali violenze nella famiglia; nel primo caso, le decisioni restano nell’ambito privato; nel secondo entrano in un ambito pubblico), dal Diritto “pubblicistico o pubblico”, ovvero dei rapporti del singolo cittadino o di più cittadini con lo Stato o altri enti pubblici .



LA NOMOGRAFIA CIVILE (privatistica ed amministrativa), PENALE, MILITARE, PROCEDURALE .

Nel Giure tradizionale, la differenza fra Diritto civile, privato, e Diritti amministrativo, penale, procedurale e così via, è fondata sulla classica distinzione formale, che separa, come si trattasse di mondi giuridici completamente opposti, le singole pratiche e discipline. Se badiamo alle interpretazioni della Filosofia del Diritto o della Teoria Generale del Diritto, non si ricava nulla di più e di meglio. Oggi, in specie, la prima disquisisce soprattutto di questioni linguistiche (non concettuali), diventando semplicemente la Filosofia del Linguaggio giuridico; la seconda appare un’introduzione generale al Diritto e un Diritto costituzionale generico. Tutto ruota attorno all’idea di quali siano l’illecito civile, amministrativo, penale e derivati, e sulla pretesa “sanzione”, ovvero pena in ciascun piano del Diritto. Ovviamente, in sede procedurale, tutto ciò complica terribilmente le cose, sicché nella stessa materia (ad es., uno schiaffo dato o ricevuto) si hanno due trattamenti diversi, uno previsto dal Diritto privato, l’altro dal Diritto penale. Il procedimento penale, quando c’è, assorbe in una certa misura il procedimento civile, sempreché non venga demandato ulteriormente alla procedura civile. Già questo è causa di confusione e di iniquità, prolunga i processi e ne rende iniquo il risultato. Inoltre, le notevoli differenze tra i due riti del processo potrebbe, in molti casi, portare ad una contraddittoria assoluzione da una parte, ma ad una condanna per l’altra, nello stesso evento giuridico .

* * *
Abbiamo rilevato che la nomologia deve essere razionale, quindi non contraddittoria, pertanto non affidarsi a contrapposizioni e vuote dicotomie, ma a chiare distinzioni, e distinguere vuol dire mettere in evidenza sia i princìpi ed aspetti comuni, sia ciò che è diverso. Da questo criterio di partenza, possamo pertanto distinguere varie fasi nella nomografia critica, in quanto esposizione ed applicazione della Legge. Qualifichiamo Nomografia civile tutto ciò che concerne il dover essere, l’insieme di quelle disposizioni per cui una cosa obbligatoria o facoltativa deve essere compiuta in un certo modo. Ad esempio, non è obbligatorio sposarsi, ma se si sceglie di farlo, occorre che ciò sia fatto secondo la procedura ed i riti previsti dalla Legge. Non è obbligatorio comprare o costruire una casa, ma se la casa viene comprata e costruita deve esserlo secondo le norme di legge. Non è obbligatorio far domanda di assunzione presso lo Stato o Ente pubblico, ma è obbligatorio seguire le procedure che lo Stato o l’Ente pubblico impone per tale domanda.
La Nomografia civile è privatistica quando si occupa dei rapporti tra singoli individui o gruppi privati; è amministrativa quando si occupa dei rapporti tra lo Stato, gli Enti pubblici e i singoli individui o gruppi; è costituzionale quando riguarda il potere del popolo e dell’elettorato, i rapporti reciproci tra gli Organi nazionali e locali dello Stato, e dello Stato all’interno di Istituzioni internazionali (ad es., l’Unione Europea), formulando norme di carattere assolutamente generale che prevalgono sulle norme di rango minore, in quanto particolari (gerarchia normativa).
La Nomografia è penale ove preveda violazioni alla legge e correlative pene, secondo un ordine gerarchico ben preciso, determinato dalla Legge stessa (non c’è dunque sostanziale differenza - diversamente dal Diritto tradizionale - ma continuità e conseguenza, fra nomografia civile e nomografia penale; la prima pone la legge, la seconda determina le violazioni e le correlative sanzioni): qualificato il reato più grave, viene posta la pena più grave, così via scendendo fino al reato meno grave che prevede la pena meno grave. Va precisato che, secondo logica e non secondo discrezionalità arbitrali giudiziarie conseguenti al Diritto tradizionale, il massimo della pena inferiore deve essere sempre quantitativamente minore (sia pur di poco) del minimo di pena previsto per il reato immediatamente più grave. Qualora si tratti di reati parificabili secondo la previsione di legge, allora minimi e massimi devono corrispondere. L’ordine gerarchico delle violazioni di legge deve prevedere, sul piano costituzionale e legislativo speciale, una serie scalare di valori, il cui inadempimento provoca la sanzione che, a questo punto, sarà sempre considerata penale, anche se puramente finanziaria. Alcune considerazioni su certi princìpi tipici del Diritto penale tradizionale: l’irretroattività, la necessità della norma approvata e scritta, la prescrizione del reato, la discrezionalità del giudizio, il diritto dello Stato ad infliggere sanzioni, e così via .
Innanzitutto, è da chiarire che lo Stato non avrebbe alcun diritto di dichiarare certi atti come “reati” (ovvero, delitti e contravvenzioni secondo la tradizionale distinzione italiana), se determinati atti non fossero antisociali in natura, ovvero costituenti in sé per sé danno a chi li subisce. Tali atti, nocivi in sé e per sé, indipendentemente dal fatto di essere previsti o non previsti dalla Legge, sono qualificabili crimini o reati naturali. Poniamo che nessuna legge vieti l’uso dello schiaffo. Il fatto che, tuttavia, subìre uno schiaffo costituisca obiettivamente e naturalmente un danno (prescindendo ora dall’ulteriore considerazione che sia meritato o provocato), non si possono dar schiaffi a destra e a manca solo perché la Legge non lo vieta. Poniamo che nessuno finora abbia schiaffeggiato qualcuno, per cui nessuna legge prevede tale atto come illecito: la prima volta che avviene deve pur essere punita, anche se la Legge non lo prevede. Chi schiaffeggia, sarà punito al minimo di una pena ricavabile sulla base di princìpi costituzionali generali, e per analogia o perché l’atto rientra in un’altra serie di atti già vietati (ad es., pugni), oppure in generiche violenze fisiche: lo Stato non può giustificare dunque un atto naturalmente criminale solo perché non previsto dalla Legge, ma dal momento in cui ne verifica l’esistenza, lo Stato deve inserire nelle forme dovute quell’atto nel suo Codice penale, ossia in un Testo di leggi sulla nomografia penale, inserendolo nella gerarchia dei reati, ovvero dei crimini previsti, segnalati e sanzionati dalla Legge. Il concetto, dunque, di irretroattività della legge penale, che pure si fonda su criteri morali corretti, deve però corrispondere anche a criteri logici, senza i quali i primi diventerebbero un’istigazione ed un favoreggiamento del crimine (il caso del 2001 per cui atti di violenza specifica, quali vere e proprie torture, non vennero valutati come reati, in quanto la Legge non prevedeva esplicitamente la tortura, pur vietata in mille forme generali, quale reato specifico è segno della demenza dei magistrati che lo decisero, per salvaguardare dei criminali in uniforme di Polizia). Nascondersi dietro il formalismo (non è scritto, quindi non sussiste) è, in sede tanto civile, quanto penale, un assurdo, un’immoralità ed una vera e propria istigazione alla delinquenza, purché tale atto delittuoso non sia “descritto, scritto o iscritto” nel Codice relativo. Troppo comodo: non solo, risulta ancora più comodo tener conto della retroattività solo a favore di chi delinque, usando la norma più favorevole.
Vi è ancora un fondamentale motivo per spiegare la ragione penale, tanto nel Diritto tradizionale o Giure, quanto nella nomografia. In linea teorica, lo Stato avrebbe un’alternativa: lasciare impunito il reato e premiare chi esegue la legge in modo adeguato. Ora, poiché, in una società per male che funzioni, la grande maggioranza adempie sempre e comunque la Legge, lo Stato dovrebbe premiare un numero enorme di cittadini, lasciando impuniti i relativamente pochi che delinquono. Ma ciò rihiederebbe per lo Stato un costo enorme per questi premi. Ora, dal punto di vista dell’economia sociale è più opportuno colpire con sanzioni proporzionate chi non adempie alla legge, all’opposto premiare atti di particolare valore e sacrificio, considerare normale e quindi non rilevante il compimento letterale della legge, in quanto atto dovuto. Da questo evidente principio logico ed economico, discende la facoltà dello Stato di punire gli atti contrari alla Legge, di premiare gli atti che superino i limiti della Legge in senso positivo (atti di coraggio o, addirittura, di eroismo) .
Altro analogo principio del Diritto tradizionale riguarda la decadenza e la prescrizione: sono due procedure considerate anche queste criteri di “cultura e civiltà giuridiche” e di “certezza del Diritto”, ma tali criteri sono fonte di contraddizione. La decadenza riguarda la scadenza di una denuncia o di altro atto. Il cittadino, in sede civile o penale, deve presentare un atto entro un determinato tempo. Ora se nella nomografia civile, tali scadenze hanno ragion d’essere soprattutto in sede amministrativa (se voglio partecipare ad un concorso, devo presentare la relativa domanda entro un certo tempo), riguardo all’aspetto penale i termini di decadenza dovrebbero essere più rilevanti (non i 90 giorni o i tre mesi previsti), ma almeno un anno di tempo, per le più varie ragioni (ad es. raccolta di informazioni, indagini da parte della vittima). Ma la cosa peggiore è che un atto di rilevanza penale scada o non scada secondo una certa data, preventivamente fissata, salvo reati di una certa gravità, più che “certezza del Diritto” o “civiltà giuridica”, esprime la certezza del Delitto e l’incoraggiamento a rinviare ogni atto formale di indagine e di giudizio, in modo da evitarne la logica conclusione. Non è logico, ed è quindi inammissibile, che un atto sia considerato reato entro una certa data e che, scattando la ventiquattresima ora, e la prima del giorno successivo, tale atto non sia più un reato o almeno atto rilevabile come tale. Altrettanto illogico è che la prescrizione sia proporzionata alla gravità del reato, perché allora bisognerebbe credere (contraddizione nella contraddizione) che il reato più grave abbia “minore certezza del Diritto”, sicché l’omicidio ed il genocidio costituirebbero i reati meno giuridicamente “certi”. Vere bestemmie per la logica, ma prassi sistematica nel Giure.
Ancora: quali differenze costituirebbero gli illeciti civili (privatistici), amministrativi e penali ? Soltanto la gravità e la natura della sanzione, date sia dalla durata, sia dalla condizione. In sede civile privatistica, si tratterebbe di dare alla parte vincente il risarcimento per un danno subìto, ed avrebbe carattere sempre pecuniario o di ripristino materiale dell’oggetto materiale; in sede amministrativa, la sanzione, oltre che pecuniaria, potrebbe consistere nella perdita provvisoria o definitiva di un certo ruolo o di un certo vantaggio (es.: licenziamento, interdizione dai pubblici uffici, interdizione da una determinata attività, sospensione o perdita del diritto di voto e di essere eletto); in sede penale, la natura della sanzione, oltre che pecuniaria e di posizione sociale, potrebbe consistere nella privazione provvisoria o definitiva, parziale o totale, della libertà personale. E’ evidente che in sede penale la sanzione assume la sua maggiore gravità, sia per durata, sia per qualità.
Le sanzioni, particolarmente penali, devono si tendere alla rieducazione del reo condannato, ma solo a condizione che siano scontate integralmente. Il comportamento, durante una detenzione, non costituirebbe motivo di accorciamento, ma solo di non allungamento ed aggravamento della posizione. Una volta scontata la pena, la persona deve essere messa nelle condizioni morali e materiali di non ricadere più nel sistema delinquenziale di vita, e pertanto deve essere aiutato nel “rifarsi una vita” nel modo più corretto e legale. Per questo obiettivo, ogni pena deve prevedere un minimo ed un massimo, non valicabili ad arbitrio del giudice. Nessuna pena deve essere eccessiva sul piano formale (edittale), per poi ridursi all’atto pratico, per considerazione delle circostanze, le quali dovrebbero essere valutate esclusivamente tra i due termini di durata della pena. L’ergastolo deve essere previsto solo nel caso di reati di particolare gravità (pluriomicidi, genocidio, danni ambientali gravi con perdite di vite umane ed animali, e distruzioni rilevanti di piante) .
Il reato nel rapporto con l’intenzionalità: un altro aspetto di cui tener conto, e che segna la differenza tra Giure e nomografia critica, è la considerazione sui rapporti tra reato ed intenzionalità. Nel Giure si distingue tra dolo, preterintenzione e colpa, sulla base di una tradizione romana e clerico-canonica, nettamente superata ai fini di una moderna psicologia generale e psicopatologia del crimine. Le distinzioni, adoperate nel Codice penale italiano, sono perlomeno risalenti all’ “Etica Nicomachea” di Aristotele, e poi praticamente conservate dal moderno Diritto penale, anche illuministico e positivistico, attraverso il Diritto canonico. Per “dolo” si intende ciò che si fa con deliberata intenzione, la colpa è ciò che si fa senza intenzione, ma per pura trascuratezza, superficialità, negligenza. La preterintenzione è infine un risultato che supera l’intenzione: dicono i giustradizionalisti un “misto tra colpa e dolo” (colpa per quel che supera l’intenzione, dolo per quanto intenzionalmente provocato). Solo che un tal definizione è più adatta all’insalata che a un reato: la “preterintenzione” è tipica di ogni atto umano, le cui conseguenze non possono essere conosciute o previste nella loro totalità. Per soprammercato il Diritto moderno, nella dottrina e nella pratica giudiziaria (giurisprudenza) ha fatto ulteriori sottodistinzioni, quali la colpa “cosciente” e la colpa “incosciente” (chè allora non costituirebbe neppure reato), e si è creata almeno una decina di “doli”, a partire dal più debole, ovvero il “dolo eventuale”, che non significa - come nel linguaggio comune - un dolo probabile o possibile, ma il dolo dell’evento, ovvero ancora volere che vi sia la conseguenza, senza tuttavia auspicare che abbia un oggetto o soggetto-vittima determinato, calcolare il rischio di colpire in modo determinato. Tutto ciò, alla fine, serve solo per favorire il crimine ed il criminale che, furbescamente con l’aiuto di un ottimo avvocato, riesce ad ottenere o a non subire punizioni, o ad ottenerla minima .
Senza vacue dicotomie, moltiplicate all’infinito, si deve partire, in nomologia penale, sulla base di concezioni interdisciplinari sulle scienze dell’uomo (fisico e psichico), dal concetto di “condizione di intendere o di volere” per chi compia un illecito di qualche natura. Ora, tale condizione non può mai essere determinata nel momento in cui era avvenuto il fatto-reato, per evidenti motivi, ma in generale: se il sospetto-reo è, normalmente, nelle condizioni di intendere e di volere, se è libero nell’agire (non per ordine o imposizione altrui), egli è pienamente responsabile dell’atto compiuto, indipendentemente dal fatto che, nel tal momento, fosse talmente adirato o sconvolto dal non rendersi conto di ciò che faceva, per il puro e semplice motivo che una situazione transitoria non può mai essere individuata, e non può servire da giustificazione di alcun genere (bensì, al massimo considerata quale attenuante relativa ai termini cronologici della pena). Determinato questo aspetto, si deve passare alla valutazione dell’intenzione che, tuttavia, può essere individuata attraverso l’attento esame delle modalità del compimento del reato oppure da dichiarazioni posteriori (solo se spontanee, non forzosamente ottenute), o da dichiarazioni anteriori (scritte od orali registrate, o ancora confermate da più testimonianze). Ovviamente, l’intenzione, come l’incapacità transitoria di intendere e volere, non può mai da sola essere apprezzata penalmente, altrimenti, la sola intenzione sarebbe punibile, il che è assurdo. Il desiderare di uccidere qualcuno, ma senza tentarlo o senza realizzarlo, non può essere considerato reato in alcun modo, ma solo un cattivo pensiero valutabile sul piano morale. L’intenzione assume aspetto rilevante se passa dal puro stato teorico a quello pratico, perlomeno attraverso il tentativo concreto di realizzazione.
Ora, l’intenzione potrebbe essere pienamente realizzata (il che non avviene mai nei termini previsti dal reo), potrebbe essere realizzata in parte, potrebbe infine essere realizzata oltre l’intenzione. Nel primo caso, un reato è pienamente intenzionale (progetto di uccidere qualcuno con un colpo di pistola, realizzo tale progetto esattamente, senza errare nell’obiettivo o nei tempi). Nel secondo caso, il reato è sub-intenzionale (il mio precedente progetto si realizza con due colpi di pistola, di cui uno ferisce, l’altro uccide; oppure, riesco solo a ferire la vittima, ma poi vengo bloccato nel mio tentativo). Nel terzo caso, il reato è preterintenzionale o iperintenzionale o ultraintenzionale (progetto solo di minacciare una persona con un’arma carica, segue una colluttazione, la vittima della minaccia prevista muore colpito al cuore). Ovviamente, il giudizio del reato compiuto dovrà tener conto, nella pena, delle diverse circostanze del fatto.
Altra cosa è la “colpa” che è extra-intenzionale. Salendo per una montagna con un amico che mi segue, mi afferro ad una sporgenza che cede, colpisce l’amico che cade e muore. Oppure, sto guidando ad una certa velocità (purché entro il limite previsto per legge, mantenendomi alla mia destra, e così via), si rompe il freno, non riesco a bloccarmi in tempo, travolgo una persona e l’uccido. Il problema oggi particolarmente in discussione è di chi investe qualcuno senza intenzione di farlo, ma non adempiendo deliberatamente alle regole del Codice della Strada; in più ha commesso ciò in condizioni di ebbrezza o di stordimento dovuto a sostanze psicotrope. Ora, la giurisprudenza, sulla base del Diritto tradizionale, è incerta se considerare tale omicidio “colposo” o “doloso”, se la colpa è cosciente o se c’è un dolo eventuale. Alla fine, il criminale è sempre premiato. Si suppone che chi guida con regolare patente sia in condizioni generali di intendere e di volere, dunque non doveva ubriacarsi o drogarsi; secondo, doveva viaggiare in condizioni di sicurezza per sé e per altri, rispettando tutte le regole di guida di un mezzo a motore. Dunque, egli, investendo una persona, ha voluto l’”evento”, anche se non era previsto il soggetto-vittima di tale evento (poteva essere egli stesso, un animale, o anche una o più persone). Secondo la classificazione tradizionale, il suo è un “dolo eventuale” evidente, non un atto colposo (la colpa cosciente è propriamente un ossimoro), ma i giudici in generale lo definiscono “colpa incosciente o cosciente”, ma non “dolo”. Secondo la più logica distinzione nomografica, si tratta di atto preterintenzionale o iperintenzionale o, ancora, ultraintenzionale. L’obiettivo intenzionale era di correre come un pazzo, dopo essersi drogato o ubriacato, oppure anche da assolutamente sobrio (in questo caso, l’ebbrezza è data da uno stato mentale di eccitazione che mira a sfogarsi in tal modo, ad esempio dopo qualche scontro verbale, per irritazione, o che altro), ma sapendo razionalmente di correre il rischio di investire qualcuno e di ucciderlo, magari anche se stesso (una forma di suicidio indiretto). Il giudice deve dunque punire l’atto, come atto cosciente e voluto, sia pure nel limite della preterintenzionalità (da punirsi, a mio parere, a metà tra il minimo ed il massimo della pena edittale per l’omicidio semplice).
Sulla nomografia militare, si osserva semplicemente che essa riguarda le istituzioni, la gerarchia, la disciplina, le violazioni delle norme civili, sia specificamente militari, in pace ed in guerra, e va considerata parte per il carattere speciale che la condizione di appartenenza militare presenta per il cittadino in uniforme. Entro queste regole dovrebbe essere anche inserita la legislazione di Polizia e di ogni altra Forza dell’Ordine, compresi gli ordinamenti speciali dei centri di raccolta delle informazioni riservate su altri Stati oppure su organizzazioni sovversive interne. La nomografia militare richiede istituzioni di indagine e di dibattimento a se stanti, come già esistenti e le cui regole giudiziarie, semplificate, potrebbero essere modello per quelle della nomografia procedura civile e penale. In situazione di guerra, nei casi specifici previsti dalla Legge (es. spionaggio, sabotaggio), anche i civili possono essere coinvolti nelle misure di legislazione militare .

* * *
Notevole importanza deve avere qui la nomografia procedurale: partendo dal presupposto che gli aspetti civili (il dover essere o il dover fare) e gli aspetti penali sono in stretto rapporto, l’intera procedura giudiziaria dovrebbe essere parificata con poche differenze. In concreto, la differenza tra aspetto civile ed aspetto penale del procedimento dovrebbe consistere nel principio per cui il primo è caratterizzato da un contenzioso di tipo non intenzionale, dovuto ad imperizia, ignoranza della norma, e non da precisa volontà del danno inferto alla controparte giudiziaria. La sanzione, in tal caso, si limiterebbe al risarcimento (integrale) del danno e a spese minime procedurali, oltre a quelle del difensore, se adottato: in caso di conciliazione o concordato tra le parti, si potrebbe avere un indennizzo (parziale) del danno, riducendo il procedimento alla presenza dei giudici e dei magistrati d’indagine e delle procedure, anche senza avvocato delle parti. Più complessa la procedura amministrativa, per cui una delle parti è lo Stato o Ente pubblico: in tal caso il procedimento deve avvenire sempre con richiesta di risarcimento integrale del danno e maggiori spese procedurali. Se parte in causa sono uno o più impiegati dello Stato avverso ad altro dipendente o a cittadino, il procedimento rimarrebbe di tipo privatistico; se la parte in causa è la pubblica amministrazione nella sua generalità, il procedimento va considerato amministrativo, ed ambedue le parti in causa dovrebbero condurre il dibattimento con avvocato difensore (il vecchio avvocato dello Stato dovrebbe essere qualificato come rappresentante della difesa dell’amministrazione, ed essere dipendente pubblico, e non professionista privato, col titolo - eventuale - di “difensore pubblico delegato”, laureato ed esperto del particolare settore amministrativo oggetto di contenzioso). Il procedimento penale richiede le medesime strutture del procedimento civile o amministrativo ma, affrontando reati di natura dolosa o preterintenzionale, che vanno dimostrati con maggior cura, nel rispetto assoluto dell’imparzialità, esso richiede necessariamente tempi più lunghi. Nel Diritto tradizionale, si dice che il giudice deve essere, oltre che “terzo ed imparziale”, anche “vergine”, ovvero non a conoscenza dei fatti che gli vengono sottoposto ad esame. Ciò è assurdo, oltre che materialmente impossibile. Il giudice deve conoscere gli eventi già prima del giudizio e del confronto delle parti, in modo da capire i vari punti di vista e l’intera problematica: ciò dovrebbe avvenire con la trasmissione degli atti dai magistrati dell’indagine e delle procedure al Collegio giudicante.
Altro elemento tipico del sistema giudiziario, la separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero: una tale separazione è ovvia, quando le funzioni esercitate sono diverse, per cui o si è pubblico ministero o si è giudice, ma diventa assurda se spinta fino a dire che chi è pubblico ministero non possa diventare giudice, in quanto anzi la funzione giudicante richiedendo esperienza e maggior conoscenza delle leggi, esige che sia raggiunta una certa età anagrafica e un certo numero di anni di servizio, come magistrato inquirente. Sostengo pertanto che, nell’amministrazione giudiziaria, ben ordinata, occorrerebbero almeno dieci anni di servizio come magistrato delle indagini o delle procedure (che, in tal caso, equivarrebbero) prima di poter concorrere al titolo e ruolo di magistrato giudicante. Al fine di non creare rapporti di varia natura (legami positivi e negativi, di favore e di sfavore) con l’ambiente sociale, ogni magistrato dovrebbe essere trasferito in altra sede nel termine di cinque anni o sette al massimo; sempre - come già previsto, ma spesso non attuato, dalla Legge - quando passa dalla funzione inquirente alla funzione giudicante (onde non succeda che giudichi chi ha, in altra occasione, indagato o fatto rinviare a giudizio) .
Si parta dunque dall’amministrazione giudiziaria che, pur mantenendo organizzativamente una struttura come quella attuale, deve però ulteriormente caratterizzarsi. Intanto, riguardo alle parti in causa (denunciato e denunciante) è da premettere che non deve esservi alcuna situazione di favore né per il primo, né per il secondo. L’idea che “tutti sono innocenti fino a condanna definitiva” è una bella frase priva di senso, che trae la sua motivazione da procedimenti antichi che, opprimendo il presunto reo, lo spingevano a confessioni anche di fatti non avvenuti. Va ricordato che, se tutti devono essere garantiti nei loro diritti umani e civili, nondimento non si può parificare il persecutore o l’oppressore con la vittima, né favorire il persecutore rispetto alla vittima. Chi è sottoposto a giudizio deve provare la propria versione dei fatti, così come deve provarla la parte opposta. Occorre ricordarsi che la garanzia deve essere prima e maggiore per la vittima, poi per il presunto colpevole, il quale deve essere posto nelle condizioni di fornire ogni prova a proprio favore fino all’ultimo momento della fase di giudizio (compresa quella che oggi viene chiamata di Cassazione e che, a mio parere, non deve ridursi a pure questioni formali e procedurali, per controllare le quali deve agire sempre e comunque il magistrato delle procedure, di cui sotto si parla, bensì anche le questioni di merito: ovvero se un fatto sia o non sia avvenuto, come sia avvenuto, chi ne sia il responsabile), al modo stesso della parte avversa, ma il trattamento del persecutore non può essere identico a quello rivolto alla vittima. Qui brevemente si accenna a quella che oggi è chiamata “custodia cautelare in carcere”. Nessuna privazione della libertà personale deve essere inflitta all’imputato o indagato se il reato da lui eventualmente commesso (e di cui non è ancora pienamente dimostrata la sua responsabilità) non prevede un periodo di detenzione o arresto (termini oggi divisi, anche se di fatto corrispondono materilmente, ma che devono coincidere anche per le ragioni e le modalità, per cui un reato leggero non deve prevedere privazione della libertà materiale, mentre lo deve prevedere un reato sufficientemente grave) non la preveda. La fase preventiva deve essere scontata in sede diversa da quella conclusiva al termine del processo (ad es.. una caserma dismessa e riadattata piuttosto che un penitenziario, dove pur rinchiusi vi sia una certa libertà di movimento interno, mentre viceversa il carcere punitivo deve essere scontato in modo più severo, in celle singole con servizi, ore d’aria e di lavoro obbligatorio manuale. Ma tutta la parte punitiva deve essere rivista, ed esaminata in altra sede). Se data immeritatamente, deve essere adeguatamente risarcita con completa riabilitazione dell’innocente privato ingiustamente della libertà .
Ogni procedimento investigativo e giudiziario deve prevedere non due, ma tre figure di magistrato: quello inquirente (magistrato delle indagini), quello delle garanzie formali (magistrato delle procedure), che devono lavorare insieme in modo che ogni atto giudiziario rispetti le regole ed i tempi previsti dalla legge, ed il magistrato giudicante (Collegio - va abolito il termine medioevale di Corte, residuo di tempi in cui il giudizio era irragionevole arbitrio - di almeno tre giudici anche per le cose più semplici, essendo assurdo che una persona sola, magari giovane ed inesperta, decida sia pure solo in prima istanza su un qualunque procedimento, mentre i successivi si limitino ad approvare; nel Collegio deve presiedere il giudice più anziano nel servizio e, a parità di servizio, quello maggiore d’età; nell’eventualità ulteriore di parità d’età e di servizio, colui che ha maggiore punteggio nella graduatoria locale o nazionale).
L’esigenza di una nuova figura di magistrato è data da due ragioni, sia per la garanzia di legge in ciascun procedimento, sia nell’eventualità che le persone protagoniste del processo (denunciante-denunciato) decidano di difendersi senza presenza di un proprio avvocato, ove la presenza di questo non sia ritenuta essenziale per la complessità del procedimento e per la gravità del fatto in discussione, oppure per il livello culturale e psicologico dei protagonisti nel processo. Il magistrato delle indagini non va più considerato necessariamente come un accusatore, non deve - come dice la formula del processo “accusatorio” - “sostenere l’accusa in giudizio”, in quanto la parte propriamente accusatoria è data dall’avvocato del denunciante, in nome e per conto dello stesso. Occorre smetterla di rappresentarsi pubblici ministeri o pubblici accusatori come “parte pubblica” dell’accusa o meno, chiedendosi se il procedimento possa o no proseguire, mentre essi devono rappresentare soltanto lo Stato e la Legge in modo imparziale. Ogni denuncia deve proseguire, salvo che sia talmente ed evidentemente infondata, e che tale infondatezza sia dichiarata con atto integralmente motivato e pubblico dai magistrati delle indagini e delle procedure, dopo aver raccolto tutti gli elementi informativi necessari. Nessun singolo magistrato deve poter archiviare di propria iniziativa qualcosa, con motivazioni risibili o insufficienti o con pretesi puramente formali (modalità di denuncia), come troppo spesso si ha oggi, tradendo la lettera ed il contenuto di quell’”obbligo dell’azione penale” che i giuristi (magistrati ed avvocati) interpretano a loro uso e consumo. La funzione del magistrato delle indagini è solo quella di chiarire la verità dei fatti dal punto di vista della Legge, come quella del magistrato delle procedure di verificare che tali indagini siano svolte in modo scientificamente e logicamente corretto, senza abusi illegali da parte di chicchessia (es.: uso della forza, estorsione di confessioni, interrogatori e ispezioni non in presenza di avvocato, ogni altro procedimento non previsto dal Codice di procedura). Alle vecchie formule del procedimento “inquisitorio” ed “accusatorio” del Diritto tradizionale, si deve sostituire la formula del procedimento dimostrativo o probatorio, in senso epistemologicamente e scientificamente fondato, in modo tale che non emerga una presunta “verità processuale” che nulla abbia a che vedere con la “verità dei fatti”, bensì proprio questa nei limiti delle possibilità umane (“verità storica” dei fatti) .
Il magistrato giudicante deve essere plurale, collegiale, a partire da tre giudici (presidente compreso) per il primo grado, con altri due per il secondo grado, sette nel totale per il terzo, presidente del Collegio compreso (per non creare situazioni di parità, l’astensione o assenza fisica dal voto devono essere vietate). Nell’istruttoria del processo, svolta in cooperazione tra magistrato delle indagini e delle procedure, devono essere raccolti tutti gli elementi di prova, nessuno escluso, che le due parti presentano, e nel corso del dibattimento ogni altro elemento di prova deve poter esser presentato: ciò all’ovvio fine di delineare quanto meglio possibile la verità dei fatti in questione. Ogni udienza deve durare almeno un’ora continuata al giorno (che cominci dalle ore 9 e concluda alle 19, in due turni distinti ed uguali) e ogni rinvio non superi il termine tassativo e non ulteriormente rinviabile (anche per motivi di salute) di 10 giorni, in modo che il tempo complessivo del procedimento sia concentrato in un periodo ragionevole. La presenza del magistrato delle procedure deve costituire, comunque, la garanzia della regolarità del procedimento (appare ovvio che, quando sia assolutamente necessaria la presenza di una delle parti, il procedimento deve proseguire sentendo altre parti, testimoni o verifica della documentazione, ecc., purché vi sia l’avvocato dell’assente o, se manca il difensore, la persona direttamente interessata al procedimento). Le ragioni pretestuose di rinvio in tempi lunghi, presentate dalle varie parti processuali, verrebbero a cadere con l’abolizione della prescrizione (l’unica prescrizione ammissibile dovrebbe essere quella della morte del reo, notificata e documentata da parte deo suo avvocato o dagli eredi). Infine, la semplificazione delle procedure, togliendo ogni base a pretestuose opposizioni ed eccezioni avvocatesche, sul solo interesse di una delle parti processuali, particolarmente quella dell’imputato, pur nella completezza delle informazioni e della discussione, ridurrebbe al minimo i tempi effettivi del dibattimento (**).
La sentenza deve essere contestuale alla motivazione: si deve smettere di sentenziare prima di aver capito perché si sentenzia in un certo modo. Dunque, l’ultima udienza di un processo deve essere quella in cui sentenza e motivazione sono presentate insieme in sede pubblica. Al fine di non caricare il Collegio giudicante di inutili funzioni la verbalizzazione scritta va affidata ad un cancelliere processuale non magistrato, tramite procedura stenografica o altro sistema tecnico attuale, in modo da avere verbali processuali e di sentenza esattamente corrispondenti a quanto detto e formulato oralmente dai giudici (da confrontarsi, in caso di contrasto, con registrazioni audiovisive non manipolabili). Vanno aboliti i procedimenti speciali che, al solo scopo di risparmiare fatiche ai poveri magistrati, sono stati creati su imitazione servile dello straniero. Emesso il giudizio in primo grado, il ricorso - su giustificati motivi - dovrebbe essere presentato non oltre i 30 giorni dalla sentenza e dall’udienza finale. La revisione del processo dovrebbe essere richiesta solo sulla base di nuove prove obiettive. Estrema e decisiva importanza deve essere data ai reperti ed alle perizie di natura scientifica e tecnica, sempre relativamente alle leggi vigenti, sempre al fine di raggiungere in modo quanto più determinato sia possibile la verità storica dei fatti, e non le elucubrazioni mentali di un giudice qualunque .



LA FORMAZIONE NOMOLOGICO-DIDATTICA IN RELAZIONE ALLE PROFESSIONI DOCENTE, COSTITUZIONALISTA, GIUDIZIARIA, FORENSE E NOTARILE, NELL’UNIVERSITA’ O NELL’AMBITO DI STUDI SUPERIORI .

E’ necessaria una premessa di carattere generale sull’ordine degli studi superiori, oggi generalmente concentrati nell’Università, la quale - per tradizione medioevale ereditata dalle culture successive - risulta una specie di Gran Serraglio delle Scienze. Ora una simile organizzazione può essere considerata sotto aspetti positivi (per la razionalizzazione dell’ordinamento e per l’interdisciplinarità fra le scienze particolari), ma anche un carrozzone, dove si insegna di tutto e non si impara quasi nulla, particolarmente oggi. Viceversa, lo Stato potrebbe anche organizzare gli studi superiori in Istituti distinti e separati sul piano organizzativo, senza gerarchie interne (Rettorato - Consigli di facoltà - Dipartimenti - Presidenze di facoltà, ecc.), ma che diano al titolo di studio un valore legale. A questo proposito ritengo assai poco funzionale la proposta di chi vorrebbe negare valore legale al titolo di studio, dimenticando che ciò è impossibile, senza negare di fatto anche ogni altro valore, anche solo culturale, al titolo. Dire “titolo” o dire “valore legale del titolo” è dire la medesima cosa in forma sintetica o analitica, perché un titolo senza che abbia un suo valore legalmente riconosciuto non significherebbe nulla e non servirebbe a nulla. Certamente si può dare un certo valore legale, invece che un altro, ma il titolo in quanto tale per avere un significato deve sentirsi riconosciuto. Ad esempio, io posso farmi chiamare “mago” o “taumaturgo” o “pranoterapeuta”, ma questi titoli sono soltanto delle vanterie se non sono legalmente riconosciuti, assumendo un significato preciso. Così, io mi qualifico qui come nomologo, dando a questo nome composto di derivazione greca il significato di studioso della Legge, della legislazione e dei problemi che queste concernono. Qualifico la nomologia come scienza interdisciplinare, dando ad essa tutto un sistema logico che ha un valore essenzialmente filosofico. Ma, finché tale termine non sia legalmente e formalmente riconosciuto dalla Stato o almeno dalla società, è un titolo che vale assolutamente nulla. Posso, anche, qualificarmi come lucumone di Vattelapesca o conte di Nulladimeno, corredandolo di un preziosissmo diploma in pergamena con stemmi, simboli, triangoli occhiuti, o che altro stimoli la fantasia, ma se il titolo di lucumone non è legalmente valido, di questo titolo non posso fare alcun uso pratico, e così, se pure il titolo di conte mi dà un certo rilievo (in quanto termine storico), il “Nulladimeno” rappresenta una pura invenzione, non è una località e neppure una funzione. Quindi, sarebbe un altro titolo senza significato e senza senso pratico. Dunque, coloro che vogliono togliere valore legale al titolo di studio (diploma o laurea che sia), tolgono ogni valore al titolo stesso, che così non è neppure onorifico. E’ come dire: qualcuno ha frequentato gli studi universitari, ha ottenuto determinati risultati, ora di questi risultati non se ne fa nulla oppure fa cose che non c’entrano per niente con i suoi studi. “Che bravo: si è laureato in taumaturgia, ben 10 anni di studi accurati, ed ora fa il facchino o il salumaio”. Il discorso sarebbe diverso se questi abolizionisti sostenessero viceversa: “modifichiamo il valore del titolo di studio, limitandone o ampliandone l’efficacia legale”, ad esempio tramite concorsi, altre prove o ulteriori corsi di studio, o il tirocinio, ma per poter sostenere quei concorsi, quelle prove, quei corsi o quel tirocinio, occorre che il titolo per farlo sia valido legalmente .
Chiarito ciò, proseguiamo: l’Università come serraglio di insegnamenti di livello superiore potrebbe essere sciolta, ma probabilmente andrebbe perso anche un certo valore sul rapporto interdisciplinare delle Scienze; quindi dovrebbe essere, meglio, riordinata, avvicinandola per esempio alla Scuola, sia nella mentalità sia nella struttura, come - del resto - sono convinto che la Scuola Media (o secondaria) superiore debba anch’essa avvicinarsi all’Università, predisponendo gli studenti alla necessaria capacità di auto-organizzazione degli studi (soprattutto nel biennio finale, presentandosi da sé agli esami ed alle interrogazioni, e non aspettando che sia il docente a chiamarli), così avviandoli ad una maggiore responsabilità (problema questo su cui nei pochi anni in cui ho insegnato al Liceo ho dovuto scontrarmi con una mentaltà ancora paternalistica sulle prove orali). Così avviene che, quando i ragazzi si iscrivono all’Università (o tentano di farlo con prove di selezione), non sappiano esattamente ancora le loro attitudini ed i loro interessi, e finiscano per perdersi, spesso temendo di affrontare l’esame, perché non abituati ancora a farlo spontaneamente. Oggi, l’Università degli Studi (termine che indica il gruppo di discipline in cui ci si specializza, secondo la tradizione medioevale) è organizzata in Facoltà e in Dipartimenti. Le prime sono istituzioni tradizionali, le secondo moderne, sulla base di criteri interdisciplinari. Io proporrei di trasformare il nome in ISTITUTO SUPREMO DI CULTURA, per togliere quella patina medioevale ed arcaica che tuttora mantiene, distinto in sedi diverse (Atenei o Università) con identici programmi generali ma con specifici corsi su temi scelti dal docente, caratterizzato, come oggi da Facoltà, o Dipartimenti di specializzazione, dove il numero di materie o discipline sia identico per tutti, onde non creare sedi di categoria superiore o inferiore. Della formazione dei docenti, non più interna, bensì esterna, ho già scritto nella mia opera “La Pedagogia e la Didattica, dall’arte alla scienza” , e qui ripeterò in sintesi il fatto: la pretesa di poter insegnare a livello superiore praticamente con due anni di pratica, appena laureato, è assurda. Oltre a dover fare studi di scienza dell’educazione in generale e di didattica della o delle specifiche materie che si insegnano, occorrerebbe a mio parere aver insegnato in ruolo per almeno 10 anni nella Scuola dell’Obbligo e nella Media Superiore, onde acquisire capacità di chiarezza e di buona, semplice espressione, che la gran parte dei docenti universitari non ha, rivelandosi - oggi soprattutto - dei noiosissimi ripetitori di concetti. Solo cominciando ad insegnare ai ragazzi più giovani, nell’ambito scolastico, si impara adeguatamente ad insegnare, il che è diversissimo dal fare conferenze monotone e spesso poco udibili. Anche sotto questo aspetto, il riavvicinamento tra Scuola ed Università deve realizzarsi integralmente. La formazione dei docenti di ogni livello dovrebbe avvenire secondo la vecchia via aurea dell’Istituto (o Liceo) Magistrale, della Facoltà (o Dipartimento) di Magistero, in modo da acquisire sia contenuti (pedagogici e giuridici), sia metodologie didattiche generali e specifiche, in modo tale che l’abilitazione all’insegnamento di ogni livello non sia una formalità, ma una seria ed accurata formazione. Ogni capoluogo di provincia dovrebbe avere una propria Università o, almeno, Istituti superiori distinti, ma di pari livello .
Veniamo ora allo studio nomologico: oggi esiste una Facoltà di tradizione medioevale che si chiama “di Giurisprudenza”: “prudenza nel senso non morale, bensì di conoscenza del Diritto o Giure”. Da essa, oggi come oggi, escono docenti, costituzionalisti, avvocati, notai e giudici, tutti insieme, distinti poi dai rispettivi corsi e concorsi frequentati. La mentalità in essi è sostanzialmente comune, spesso mantengono tra loro vecchi rapporti d’amicizia e di orge goliardiche, il che non li predispone ad una severa distinzione dei ruoli diversi. All’atto pratico, soprattutto nell’ambito giudiziario-forense, abbiamo giudici che si credono pubblici ministeri, procuratori che si ritengono avvocati, ed avvocati che confondono la loro professione con quella dei magistrati in genere. Tutto ciò, se vogliamo creare una scienza della Legge fondata razionalmente e moralmente, deve cessare e deve cessare drasticamente. Se ne deduce questo: la vecchia, tradizionale, arcaica Facoltà di Giurisprudenza deve essere distinta, anzi anche fisicamente separata in località diverse, in due Dipartimenti: quello di Nomologia pubblicistica e quella di Nomologia forense e notarile (***). La prima dovrebbe comprendere sezioni interne o indirizzi di studi per: docenti di legislazione nelle Scuole Medie Superiori (salvo che non sia previsto il sopra proposto Dipartimento di Magistero, in cui si predisporrebbe la formazione anche dei docenti di legislazione), costituzionalisti (consulenti di Scienza costituzionale), magistrati. La seconda essere destinata alla formazione di avvocati e notai. I corsi rispettivi e le discipline non dovrebbero essere granché diversi, ma caratterizzarsi per una differente mentalità di base. La Nomologia pubblicistica dovrebbe essere fondata sul pubblico interesse e sul rispetto della Legge e dello Stato, distintamente da ogni interesse privato, onde non confonderlo con l’interesse o la pubblica esigenza. La Nomologia forense e notarile, che nel rapporto concreto è rivolta a tutelare gli interessi legittimi e diritti soggettivi di individui e gruppi, dovrebbe avere considerazione per la conciliazione di questi con l’interesse pubblico, sacrificando gli interessi privati solo dove in contrasto con l’interesse pubblico (e non con altri opposti interessi privati). La necessità della separazione fisica, anche con la creazione di Istituti superiori non collegati o dipendenti dalle Università, appare evidente per non creare legami personali, che poi - come ben può constatare chi ha dovuto frequentare tribunali - si manifestano in una sorta di solidarietà antiprofessionale tra magistrato (giudice o accusatore che sia) ed avvocato, il quale finisce sempre per concordare col giudice o col pubblico ministero ciò che invece deve concordare solo col proprio patrocinato. Né si debba verificare un giudice che dia ragione ad un avvocato solo perchè suo antico collega di feste goliardiche, invece che all’altro, che non ha goduto le medesime avventure. Ovviamente, questo discorso vale appunto per gli avvocati, e non per i notai i quali tuttavia, sul piano professionale, devono essere prossimi all’avvocato, piuttosto che al magistrato, nella tutela dell’interesse dei singoli, purché sempre nel rispetto della Legge. Tale separazione, come accennato, potrebbe anche avvenire con la creazione di Istituti a se stanti separati dall’Università, sia pur statali o pubblici, oppure - eventualmente - anche privati, ma controllati dallo Stato (parificazione, come per le Scuole), dove lo Stato non sia in grado di crearne dei nuovi oppure per ragioni di positiva concorrenza nella metodologia di formazione e nei contenuti massimi (non certo in quelli minimi o medi).
Si è detto dei programmi: ciascun corso dovrebbe caratterizzarsi per comuni discipline fondamentali obbligatorie ed un certo numero (almeno 4 su 10) di discipline facoltative che predispongano ad una specializzazione. Come detto, fra i due desiderabili Dipartimenti la differenza consisterebbe non tanto nei corsi, nei contenuti, quanto nell’impostazione teorica generale di atteggiamento verso le situazioni nomologicamente rilevanti. Non presento qui elenchi completi che sarebbero puramente ipotetici: basti dire che le discipline di Nomologia costituzionale, civile, penale e procedurale, distinte in corsi biennali o triennali, ove necessario, dovrebbero comprendere molte delle materie che oggi vengono qualificate come Diritto costituzionale, Diritto privato (della persona, della proprietà, dei rapporti commerciali, ecc.), Diritto pubblico europeo ed internazionale, Filosofia del Diritto (meglio se sul piano storico), Psicologia generale, Criminologia (come studio del crimine nelle sue varie tipologie, e non del criminale in quanto persona), Antropologia o Psicologia criminalistica (come studio caratterologico e psicologico del comportamento criminale), Sociologia generale, Sociologia del crimine (studio delle motivazioni sociali e politiche che conducono al crimine), Teoria e pratica di indagine criminalistica, Diritto processuale civile, amministrativo e penale, ecc. . La laurea, di tipo quadriennale o quinquennale, dovrebbe essere seguita da corsi di specializzazione ulteriore che approfondiscano certi temi speciali, in funzione professionale, accompagnate dal tirocinio pratico (per avvocati e notai presso gli studi legali e per magistrati presso i Tribunali, sul modello di uditori giudiziari, cancellieri processuali), organizzati dall’Università stessa o dagli Ordini professionali di almeno 18 mesi continuati, gratuiti. Infine, come costituzionalmente previsto, si dovrebbero sostenere concorsi regolari biennali o triennali, secondo le necessità, con prove scritte (analisi di singole situazioni processuali o atti notarili), orali (esami davanti a commissioni) e prove pratiche (procedimenti regolamentari, ma fittizi ovviamente con giudizio finale sul denunciato sottoposto a “processo”).
In conclusione, esamino brevemente la questione della metodologia d’insegnamento ed apprendimento: il Diritto tradizionale o Giure o Giurisprudenza, anche per la sua mentalità arcaica, viene insegnato ed appreso con metodi quasi esclusivamente mnenomici: si studiano a memora articoli, sentenze, motti e brocardi latini di derivazione medioevale (anche veri e propri barbarismi maccheronici, aricchiti oggi dall’idioma britannico), testi interi. Ciò è sintomo della sua origine religiosa, divinatoria, trasmessa oralmente e quindi necessitante di memoria. Esame critico del testo, comprensione, paragone con la realtà, studio sulla validità o meno di una certa legge sono cose che esulano dall’esame giuridico. Il massimo dell’intelligenza si sprofonda nella cosiddetta “dottrina” (quasi sempre universitaria), nell’interpretazione di leggi e sentenze, ovvero nell’abilità di arzigogolare con linguaggio gergale, e quindi complicandolo all’inverosimile, anche sul testo linguisticamente più semplice, rendendolo incomprensibile ed inapplicabile .
Ora tutto ciò la Nomologia, soprattutto la Nomografia critica, devono nettamente superare: l’uso del Codice deve essere né più, né meno che quello della consultazione e della citazione, come si fa di un dizionario o di un’enciclopedia, che non si leggono riga per riga, ma si utilizzano nelle parti e nei termini che occorrono di volta in volta. I Codici non sono testi da apprendere a memoria, per poi snocciolare numeri e commi, senza alcun costrutto, ma strumenti di verifica di ogni singolo caso in esame. Quanto alle sentenze, ricordando che esse non possono costituire leggi o norme (salvo eventualmente quelle della Corte Costituzionale ed Organi consimili), ma semplicemente l’applicazione a casi specifici di norme e di leggi, esse dovrebbero essere puramente lette a titolo di esercizio, e non certo come modello a cui ispirarsi. Lo “stare decisis”, in uso nei Paesi anglosassoni ed imitato per servile piaggeria in Italia, è una vera idiozia, perché ogni caso sta a sé e non può servire da modello per un altro che, quantunque simile, presenta fatti e situazioni specifiche e spesso irripetibili .
Il lavoro di insegnamento e di apprendimento deve essere solo sui princìpi nomologici e sulla loro logica deduzione quando si affrontano concezioni e problemi generali. L’esercizio rigoroso della ragione, applicato all’esame della Legge e delle situazioni reali regolate dalla Legge, è l’unico metodo fondamentale che bisogna adottare. Semmai il collegamento, come si è accennato, deve essere interdisciplinare: non si può pretendere di studiare l’essere umano, nei suoi aspetti soprattutto comportamentali, ignorando vergognosamente nozioni di psicologia generale prima di poter pretendere di possedere nozioni di antropologia criminale, ignorando nozioni di fisiologia e patologia del corpo umano e pretendere poi di studiare la medicina legale, per non dire ancora di conoscere male la lingua italiana ma pretendere di studiare oratoria e retorica, e così via. Buone nozioni di cultura generale, ben collegate ed organicamente correlate, sono indispensabili per capire qualunque testo, comprese leggi e sentenze. Altrimenti si finisce nell’uso vuoto della parola priva di senso, ma capace solo di confondere persone di limitata cultura, al di sotto o a livello di Scuola Media (quella unica d’oggi…). Il rapporto docente-studente non dev’essere quello fra chi parla e l’altro che ascolta o scrive, ma almeno per il 50 % della lezione dialogo e confronto, tesi, domanda e risposta, talvolta obiezione e confutazione, ovviamente in toni pacati e ragionevoli, mai di dibattito litigioso in stile televisivo .



============================

NOTE :

(*) Invito chi legge questo “Scriptorium” a verificare le considerazioni, sulla natura magica del Diritto Romano (e quelli da esso ovviamente derivati), di Hoegerstroem, di Carla Faralli, e la mia relazione-saggio “La Certezza del Diritto come mito dei nostri tempi”, pubblicato a cura del Centro di Studi Internazionali “Heliopolis”, reperibile anche su Google.
(**) Chiunque abbia assistito, di persona o alla televisione ad un processo, per reati non particolarmente gravi, sa che ogni udienza ad essi dedicata non supera normalmente la mezz’ora, se vi sono vari testimoni tre quarti d’ora al massimo; ma la durata prevalente è di 10 – 15 minuti, e talvolta per vergognosi rinvii che, semmai, dovrebbero essere comunicati almeno il giorno prima, in modo che testimoni, tecnici ed esperti non siano costretti a perdere tempo per nulla, mentre al contrario se sono assenti possono essere puniti con una sanzione amministrativa .
(***) Se, ad esempio, la sede dell’attuale Giurisprudenza si trova nel capoluogo provinciale, la sede del nuovo Istituto, Dipartimento o come si voglia chiamare - l’importanza di nomi nuovi è solo in funzione di criteri e princìpi nuovi, di uno spirito e funzionamento nuovi - potrebbe essere dislocata nella seconda città della stessa provincia, oppure nella città che territorialmente è più centrale, anche se meno popolosa .
    
HOME | CONCEZIONI FILOSOFICHE | ATTIVITA' | OPERE PUBBLICATE | RECAPITI E-MAILS | SCRIPTORIUM TELEMATICUM per le discipline teoantropologiche | SCRITTI VARI | PER LA REPUBBLICA FEDERALE EUROPEA | SCRIPTORIUM TELEMATICUM DI NOMOLOGIA