MANLIO TUMMOLO - SCRIPTORIUM TELEMATICUM


SCRIPTORIUM
Telematicum
per le Discipline Teoantropologiche
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dedicato a

“ PIETRO ABELARDO
DI BRETAGNA “



Bertiolo (UD), primavera 2009







PRESENTAZIONE

Il termine “Scriptorium”, modellato su altri termini indicanti il “luogo” dove si fa qualcosa (come Auditorium, Cogitatorium, Oratorium, ecc.), vuol significare qui il luogo ideale, “virtuale”, dove si scrive in merito a discipline che riguardano lo studio del rapporto tra Dio e l’Uomo e tra Dio ed il Mondo. Non è assolutamente né una “Università telematica”, né un Istituto dove si offrano diplomi o titoli validi in una qualche maniera sul piano legale. Al massimo, in un futuro non prossimo si potrebbero dare dei semplici attestati di partecipazione, a chi dimostrerà interesse attivo verso gli argomenti proposti. Non è neppure un “Forum” , un “blog”, o altre sciocchezze del genere, dove i più vari debosciati mentali a cui, per sventura, sia stato insegnato a leggere e scrivere, vengano a fare inutili osservazioni senza nulla capire dei problemi che si vogliono affrontare. Non vuole, anzi si rifiuta di essere un luogo di sterili o volgari polemiche, ma solo di studio ragionato e meditato sui grandi problemi metafisici ed ontologici, di filosofia della religione .


IL PERCHE’ DI UNA DEDICA

Com’è significativa consuetudine, anche questo “Scriptorium” viene dedicato ad un illustre personaggio. Avremmo potuto scegliere un’infinità di nomi, a cominciare da Giuseppe Mazzini, naturalmente al pensiero del quale è sostanzialmente ispirato; il riferimento a Mazzini era ovvio e scontato da un lato, ma dall’altro c’era il rischio di certi equivoci di natura politica. Di filosofi del XX secolo, a cui ispirarsi, non mancavano, a partire dalla Scuola di Varisco, che è quella più vicina al mio modo di vedere le cose, ovvero il rapporto tra Dio e l’Uomo o l’Umanità in senso storico. Per autori così recenti c’è tuttavia il rischio di dover litigare con i discendenti, per cui ho preferito rifarmi ad un grande Autore tra XI e XII secolo, bretone, nato a Pallet, vicino Nantes. Anch’egli unisce nelle sue opere Dio e l’Uomo. Per la sua naturale laicità e per il suo razionalismo, è stato - giustamente, bisogna dire - considerato “eretico”, anche se, a mio parere, va ben oltre questi limiti religiosi, ai quali per ragioni di sopravvivenza e relativa tranquillità pur molti dovevano dichiararsi legati. Le sue opere, come un tempo quelle di Protagora di Abdera, furono bruciate. Fortunatamente, il grande Pietro Abelardo non venne bruciato. Il rogo fu una pena inflitta in tempi apparentemente “più civili”. Non toglie tuttavia che, seppure non certo per la sua fede e la sua razionalità, ma per il suo grande e ricambiato amore per Eloisa, egli dovette subire un’atroce mutilazione, in tempi nei quali di ferite simili si poteva facilmente morire per infezione. Le sue critiche serrate, la logica rigorosa, la sua razionalità eloquente davano fastidio. Soprattutto dava fastidio la sua forte consapevolezza nelle proprie capacità e nella propria elevatissima cultura, ai troppi individui che, ieri come oggi, ritengono di poter risolvere i problemi con frasi fatte e con pregiudizi scalcinati. Ecco perché, in ricordo del suo coraggio morale e della sua genialità dialettica, dedichiamo questo spazio a Lui. E, del resto, se pensiamo che Arnaldo da Brescia primo teorico della democrazia e della repubblica in Italia, fu filosoficamente suo seguace e suo difensore, troviamo una delle lontane radici del pensiero mazziniano, attraverso Dante, Marsilio da Padova, Gerolamo Savonarola, Machiavelli, Guicciardini. Ma Abelardo precede il pensiero mazziniano anche direttamente, quando difende la donna dai pregiudizi del tempo e per l’importanza data all’aspetto morale nel suo “Conosci te stesso”, che lo apparenta anche, fin dal titolo, con Bernardino Varisco. Dunque, non c’è contraddizione tra l’essere mazziniano e rifarsi ad un pensatore così apparentemente lontano .


PERCHE’ TEOANTROPOLOGIA ?

La fondamentale differenza tra il Dio delle religioni positive ed il Dio della Religione razionale (intesa come Religione naturale, dell’Umanità e del Progresso, specialmente nella formula mazziniana di “Dio è Dio e l’Umanità è il suo profeta”) è questa: tutto ciò che il Dio, immaginato dall’uomo, gli dice, si riduce ad un Libro di 1000 - 2000 pagine. Il Dio della Religione razionale, se dovesse effettivamente rivelare il proprio Pensiero, lo esprimerebbe in una serie incalcolabile di volumi, per cui non basterebbero tutti i libri finora scritti (anche quelli perduti) e tutti quelli che l’uomo scriverà nel resto della sua esistenza, moltiplicati per tante copie quanti uomini esistettero ed esisteranno sul pianeta .
Partendo dalla definizione data da Anselmo d’Aosta nel suo argomento ontologico (erroneamente qualificato a priori, in quanto partendo dall’idea umana di Dio, esso si rivela successivo e non precedente Dio stesso e la Sua assoluta Autocoscienza, dipendente dal proprio pensiero, del quale solo le leggi generali sono rivelazione data da Dio, diretta ed immediata, all’uomo), come Essere di cui non si può pensare il maggiore, si può giungere ad una prima conclusione, ovvero che la Teologia non è che ideologia, ovvero il pensiero umano su Dio, ovvero ancora, una teo-antropologia. L’Uomo, come misura di tutte le cose, è anche misura di ciò che gli appare come Superiore a tutte le cose, e ne tenta, non una pretesa ed ingenua dimostrazione, ma una progressiva, graduale determinazione, un progressivo chiarimento, dalle forme primitive di animismo alle forme razionali del Teismo e del Deismo .
Ludwig Feuerbach, seguace di Hegel in senso materialista e maestro di Marx ed Engels, che molto derivarono da lui, intuì un fatto fondamentale: che le religioni positive sono, in effetti, delle antropologie. Ma già Senofane e alcuni sofisti sostennero la medesima cosa, senza però giungere a quell’abuso mentale che confonde, come in Feuerbach e seguaci, l’idea di Dio, che l’uomo formula e che in certa misura lo rappresenta, con l’esistenza di Dio in quanto tale. Feuerbach, infatti, si limitò, pur parlando della “religione” a criticarne la concezione mosaico-cristiana. Già non giunse, per quel che so, alla religione islamica o a quelle dell’Asia, se non in modo del tutto generico. Trascurò anche le concezioni razionaliste della religione. Ora, una cosa è la consapevolezza dell’esistenza reale di un Essere Superiore o Supremo, altra la determinazione che di questa coscienza o consapevolezza se ne fanno gli uomini nelle più varie epoche storiche e nei vari ambienti. Ciascuna religione ha almeno due livelli, quello popolare delle persone comuni, e quello dei teologi e dei filosofi della religione (come Agostino e Tommaso d’Aquino, per citare i cristiani più celebri): e tra questi due livelli vi è spesso un abisso.
Riconoscendo l’umanità dell’idea di Dio, non posso comunque giungere alla negazione dell’esistenza di Dio, ma solo all’eventuale critica di questa o quella idea umana di Dio, in quanto l’uomo riceve la consapevolezza, o almeno, l’esigenza di un’esistenza assoluta non da sé, ma da una “rivelazione” attraverso i princìpi primi della logica stessa.



DISTINZIONE TRA DEISMO E TEISMO .

Le distinzioni, generalmente adottate, peccano di confusione e di contraddittorietà: se il primo ammettesse l’esistenza di Dio, senza ammetterne la conoscibilità o la rivelazione, da quale fonte potremmo noi conoscere l’esistenza di Dio, in quanto assoluta e perfetta Entità ? E’ perciò evidente che il Deismo non nega né la conoscibilità, né la rivelatività dell’idea di Dio, bensì il carattere “provvidente” della divinità stessa: sono deisti, ad esempio, tanto Aristotele, quanto gli Epicurei, che vedono in Dio un essere perfetto che non si cura del mondo e dell’uomo. Dio è conoscibile, o per capacità propria dell’uomo, o per rivelazione di Dio all’uomo, nella sua forma pura di esistenza, ovviamente, non nella sua determinazione, ma non crea, non dirige, non fa evolvere il mondo (l’eventuale rivelazione è fine a se stessa) .
Il Deismo, dunque, è una forma inconsapevole o surrettizia di ateismo: negando la provvidenzialità di Dio, il Suo interesse per il Mondo e per la sua evoluzione, nega logicamente la possibilità di conoscerlo, il che sarebbe contraddittorio col riconoscere, malgrado tutto, l’esistenza di Dio .
E’, viceversa, Teismo ogni dottrina che non solo ammette la conoscibilità di Dio da parte dell’Uomo, ma che tale conoscibilità derivi dalla rivelazione divina alla mente umana, e tale rivelazione è un aspetto dell’intervento divino sul mondo e sull’uomo stesso, attraverso leggi fondamentali che la mente umana intuisce prima, determina poi nei suoi aspetti almeno fondamentali. Dio, per il teista, è dunque Provvidente. Il teismo è tipico di tutte le religioni positive, fondate sull’esistenza di un Libro sacro, ma è teismo pure quell’idea di religione naturale, del Progresso e dell’Umanità, dove però solo i princìpi fondamentali della Ragione (logica ed etica, teoretica e pratica), quali strumenti mentali di ricerca e determinazione, sono di diretta rivelazione divina nella mente di ogni uomo, e non rivelazione ad un singolo o a pochi uomini (i cosiddetti “profeti”), i quali poi comunicherebbero agli altri le rivelazioni ricevute, traducendole in libri sacri e prescrittivi .
Distinzioni sulle differenze ontologiche nell’Essere :
1) L’Essere Eterno, assolutamente Cosciente, Volente ed Agente, creante e non creato (Dio) .
2) L’Essere creato e non creante (le anime degli uomini, semplici e compiute, ed ogni altro ente spirituale ipotetico o possibile) .
3) L’Essere non creato, eterno, ma diretto ed evoluto da Dio (materia, mondo fisico, mondo organico, in costante progresso) .


INSUSSISTENZA DELL’ ATEISMO

L’ateismo, sia nella sua forma materialistica, sia in altre di tipo spiritualistico, oppone a Dio il Non-Dio, ovvero il nulla, una pura ed assoluta negazione, mentre occorre, per l’efficacia ed effettività dell’opposizione, almeno opporre il Qualcosa al Qualcosa. Tra il nulla ed il Qualcosa, la vittoria è comunque del secondo. L’unico argomento a pro dell’ateismo è un argomento di natura morale, la cui validità - essendo fondato sul nulla - perde anche la propria efficacia morale: “se Dio è perfetto ed infinitamente buono o giusto, il Male non dovrebbe esistere. Ma il Male esiste, dunque Dio, in quanto Essere perfetto, infinitamente buono e potente, non esiste” .
Se le cose fossero così semplici… Bisognerebbe chiedersi prima che cosa sia il Male, e per quale motivo esso sussista. Negando Dio, non si risolve sicuramente il problema del Male, ma si toglie ad esso ogni possibilità di soluzione. Se Dio non esiste, chi potrebbe abolire il Male ? E se Dio non esistesse, come potremmo dire che esiste il Male, o che quella tale azione è Male, o non piuttosto un semplice fatto di natura ? Affermando Dio, la Sua assoluta giustizia, posso sperare che il Male un giorno venga abbattuto. E’ questa la vera e filosofica scommessa, non quella assurda e ridicola di Pascal. Non posso illudermi di credere in Dio, solo inginocchiandomi e mettendomi a pregarlo; non posso dire che non perdo nulla se credo in Dio, e che tutto possa perdere non credendo in Lui. Data la minima capacità dell’uomo di capire Dio, non vi è grande differenza tra il non crederVi e il crederLo in una determinata forma o modo, rispetto all’infinita Autocoscienza di Dio. Se Egli è infinitamente giusto o, come Pascal stesso riteneva, infinitamente Buono, Egli non mi punirà mai per le mie convinzioni religiose o per l’assenza di fede religiosa, ma per le mie azioni negative, immorali, egoistiche. La scommessa pascaliana può, dunque, essere rovesciata .
La scommessa, fondata sulla stessa esistenza del male e sulll’eliminabilità del male, invece dimostrano che l’ateismo non dà soluzione al problema del male, bensì lo rende insolubile, ne fa una struttura ontologicamente indistruttibile, non un momento provvisorio per quanto lunghissimo. L’esistenza del Male, in quanto problema metafisico, ontologico ed etico, può essere superata solo sulla base dell’esistenza del Bene, di un Bene cosciente di Sé e dell’Altro, capace di agire sull’Altro, modificandolo progressivamente e continuamente .
Mostrata così l’insufficienza dell’ateismo sul piano morale universale, non resta che osservare che l’ateismo dovrebbe poi affermare quale Dio neghi propriamente, cosa che non fa o non sa fare: infatti, poiché i concetti di dio e della divinità sono molteplici, non basta dire “Non credo in Dio”, ma occorre specificare quale concetto di Dio si neghi, se tutti, alcuno, oppure uno soltanto. Infatti, per i politeisti i Cristiani erano “atei”, così come per Ebrei e Musulmani i Cristiani sono, o tendono ad essere, “politeisti”. Poiché ciò che si può affermare o negare non è Dio in quanto esistente, ma una o più tra le idee umane di Dio, l’ateo dovrebbe sempre specificare che egli nega l’esistenza di un Essere superiore ad ogni altro, ma così facendo colloca l’umanità o il mondo fisico come Essere superiore, e in certa misura ne fa il suo “Dio” .


PANTEISMO ED IMMANENTISMO .

Si tende spesso a confondere due concetti della divinità abbastanza diversi: per panteismo deve intendersi la coincidenza assoluta tra mondo fisico e divinità, in modo tale che tutta la materia viene concepita come Dio. Il politeismo classico, nelle forme più elevate, può essere considerato come una forma pluralistica di panteismo, mentre nelle forme popolari non è che un particolare tipo di personalismo antropomorfico applicato alle varie forze naturali, trasformate in “dèi”. Il panteismo parte da forme primitive di animismo e di ilozoismo, fino ad arrivare a concezioni tipiche del pensiero di Spinoza e dell’idealismo tedesco, soprattutto in Fichte ed Hegel, o nel positivismo di Haeckel. La differenza dall’ateismo o dal materialismo è data soprattutto dal valore comunque sacrale attribuito al mondo fisico. Immanentismo si oppone soprattutto a trascendenza, vedendo Dio non coincidere ma interagire nel mondo fisico, distinguersi dal mondo fisico, ma agire nel suo interno. La trascendenza assoluta è solo quella del deismo, sopra esaminato, mentre in tutte le forme di teismo Dio come Ente è trascendente, ossia separato del tutto dal mondo fisico, posto su un piano di superiorità assoluta; tuttavia, la Sua Volontà e la Sua azione, realizzandosi nel Mondo fisico, sono comunque immanenti. Erra, dunque, chi ritiene l’immanentismo come una forma di panteismo, mentre solo in casi determinati (certa mentalità rinascimentale: vedi Telesio, Bruno, Campanella) tale concezione si avvicina fortemente al panteismo .


ONTOLOGIA DIVINA CONTRO L’ANTROPOMORFISMO FISICO E PSICHICO .

Se vogliamo avvicinarci ad un concetto razionale di Dio, in quanto Ente o Entità assolutamente superiore ad ogni altra cosa, è necessario liberarci da ogni forma di antropomorfismo, tipico delle religioni arcaiche e delle religioni positive, tuttora esistenti e praticate. Già il grande Senofane aveva irriso all’idea che gli dèi fossero entità fisicamente simili all’uomo, e sosteneva che se buoi e cavalli avessero avuto una religione, avrebbero rappresentato i propri dèi come buoi e cavalli, così come le popolazioni africane (bantu o zulu) avrebbero potuto rappresentare il loro dio con un naso camuso. Del resto, lo zoomorfismo era presente nella religione egizia, senza neppure bisogno che i cavalli ed i buoi diventassero religiosi. Occorreva, quindi, secondo Senofane, immaginarsi Dio come lo stesso Essere, libero da ogni tratto materiale, umano, animale o vegetale che fosse. Colpire l’antropomorfismo nella sua struttura idolatra e feticista, come pure animista, era necessario per cogliere la pura Divinità. La Bibbia presenta aspetti antropomorfici enormi, nella sua parte più antica addirittura in senso fisico, per quanto non visibile all’uomo, che ne risulterebbe addirittura accecato se potesse vederlo, una specie di individuo estremamente luminoso; nella sua parte più recente, perde ogni corporeità, ma mantiene la psichicità estremamente umana, tanto da far dire ad un Feuerbach, e al suo copiatore Marx, che Dio rappresenta la proiezione dell’Uomo all’esterno, rappresenta se stesso come ideale realmente esistente, come reificazione di un uomo perfetto ed onnipotente. Ora, la critica di Feuerbach e di Marx, del resto tutt’altro che originale, perché risalgono a certa Sofistica greca che vedeva nella credenza teistica una finzione ingannatrice da parte dei sacerdoti verso il popolo, ha sicuramente qualche argomentazione storica buona al proprio arco, ma comunque insufficiente. Il bisogno, la necessità, quasi l’imperativo di riconoscere l’esistenza di un Essere superiore sono innati nell’uomo, anche prima dell’esistenza di una classe sacerdotale, nel momento stesso in cui l’individuo prende coscienza della propria radicale debolezza. Ovviamente, le classi sacerdotali, le istituzioni politiche in veste religiosa approfitteranno poi di questa consapevolezza e ne faranno strumento di dominio, attraverso la paura e attraverso formule e pratiche “purificatorie” .
Va ancora rilevato che ogni religione, largamente diffusa, presenta in generale due livelli: uno popolare, semplicistico, con tendenza all’accentuazione dei caratteri antropomorfici, magici, irrazionali, per cui viene adorato; c’è invece un livello più alto filosofico-teologico, dove questo antropomorfismo fisico o psichico si riduce al minimo essenziale. Lo stesso politeismo è tale nella dimensione popolare, assumendo schietti caratteri corporei, mentre nella dimensione filosofica perde ogni carattere umano fisico ed in parte anche psichico. Tutti i filosofi greci antichi ed i loro seguaci romani rappresentano la tendenza ontologica pura, così Filone d’Alessandria che riconosce nella Bibbia semplicemente un testo allegorico simbolistico, da non interpretare alla lettera, per arrivare ai filosofi cristiani e cattolici, e poi islamici, che creano una teologia estremamente razionale e depurata da ogni antropomorfismo (nel caso del Cristianesimo, se non fosse per il linguaggio e per il carattere trinitario, e l’esigenza di mantenere l’antica struttura fideistica, tale progresso sarebbe evidente) .
Sul piano della ragione, Dio non è persona, non è né fisicamente, né psichicamente un Uomo perfetto, non è un mago, non è un sovrano, non “ama” né “odia” nessuno. Non presenta alcun sentimento psicologicamente umano. Se Dio è, Egli non si presenta in un certo spazio, Egli potrebbe unicamente essere rappresentato da un punto geometrico che irradia la Sua potenza su tutte le particelle. Egli è dunque, non persona (da phersu, maschera, vittima di un sacrificio umano, secondo riti etruschi), ma INDIVIDUO, ovvero INDIVISIBILE, Entità nella quale noi uomini, tentando di capirlo, elenchiamo aspetti, caratteri, attributi, i quali servono a darcene un’idea e per determinarLo sul piano della conoscenza (gnoseologia del Divino), ma che è in Sé assolutamente semplice, un Punto di massima concentrazione di ogni potenza nel Conoscere (Autocoscienza ed Onniscienza), nel Volere (Volontà assoluta), nel Fare o Agire (Onnipotenza), perfettamente Immutabile, Eterno, perfettamente Giusto (il concetto di bontà o di amore, con cui si confonde l’assoluta Giustizia di Dio, sono modelli umani di sentimento, non atti di coscienza e di volontà). Poiché è fondamentale, per i successivi discorsi, questo concetto di Giustizia, darò quindi una definizione che sorpassa la ridicola e limitata definizione data ad essa dal Diritto romano (“a ciascuno il suo” , dove appunto si presenta una pura tautologia, in quanto ciò che è “suo” e ciò che è “mio” sono del tutto da determinare, mentre potrebbe essere anche dubbio che proprietà e Giustizia siano concetti positivamente correlati) : la Giustizia, nel senso divino del termine, è assoluta coincidenza tra Essere e Dover Essere, è quell’Essere che non può risultare diverso da Ciò che è. Dio è giusto, in quanto non può essere, né agire in modo diverso da Ciò che è e da ciò che fa (definisco questa parte della Teoantropologia come Ontologia della Giustizia o Dikologia, da cui parte ogni vero principio della Legge). Ciò che noi, con termine psicologico sentimentale umano, chiamiamo “Amore” è semplicemente la Volontà Divina secondo cui ogni cosa, dal frammento di un atomo all’intero Universo, si adegui o proceda verso la Giustizia, dall’essere imperfetto (male) all’Essere perfetto (Bene), ovvero che tutte le cose abbiano Dio come fine, seppure irraggiungibile, ma Modello e Motore per un perfezionamento continuo, un’auto-organizzazione delle cose tendente al migliore stato possibile per la materia fisica. Giustizia appare dunque in Dio come coincidenza tra Essere e Dover Essere; nel mondo e nell’Umanità è un Dover Essere quale Divenire graduale dall’essere imperfetto primordiale all’Essere sempre più vicino all’Essere assoluto e divino (organizzato secondo la Legge divina). Definiamo tale Divenire, Evoluzione rispetto all’universo ed alla materia, anche organica; Progresso relativamente all’Umanità, ai suoi gruppi ed individui .


NECESSITA’ DELLA LOGICA COME METODO DI DETERMINAZIONE DELLA NATURA DIVINA - LA TEOLOGIA “NEGATIVA” .

Si è detto che i princìpi logici (soprattutto quello di non-contraddizione, ma anche quello di identità, quello della causa efficiente e quello di finalità o della causa finale), come quelli etici (idea del Bene e del male - il Dovere), costituiscono l’unica vera rivelazione di Dio nella mente umana (Dio non si presenta immediatamente e direttamente alla mente umana come Ente Superiore, bensì come Esigenza o Dovere di Ordine, Metodo Logico, Principio di conoscenza, da cui poi intuiamo la Sua stessa Esistenza come dato di fatto generale, la Sua Essenza Superiore). Ora, tali princìpi, nella loro concatenazione, consentono di determinare la natura divina con le possibilità date all’Uomo stesso. L’intuizione di una scala degli esseri (quindi, il ragionamento detto “a posteriori”) ci consente di giungere all’idea di un Essere Supremo, Assoluto, Eterno, Immutabile, Assolutamente Semplice (non diviso, né divisibile in parti). Da tale Essere poi, intuito nella Sua assoluta generalità, possiamo ridiscendere da quella stessa scala, comprendendo come ogni suo gradino abbia un valore maggiore o minore. I princìpi di causa e di finalità possono chiarirmi che le cose concrete, non essendo eterne ed essendo insussistenti di per sé, possono essere prodotte solo da un Ente di per Sé sussistente. Il principio di non contraddizione mi spiega che l’Essere Supremo non può avere in Sé alcuna contraddizione, essendo necessariamente sempre identico a Se stesso, dunque non può variare né nella Sua essenza e Volontà (trascendenti), ma neppure nella Sua azione (immanente). Poiché l’Essere Supremo è tale, non può avere alcuna caratteristica o qualità del mondo fisico, mutevole e divisibile. Di qui, un’altra via di ricerca delle Sue caratteristiche, come pensabili da una mente umana che è analitica e sintetica, e non immediatamente intuitiva, è quella della cosiddetta “teologia negativa”. Negando a Dio le qualità del mondo fisico o materiale, determino le Sue qualità spirituali, di Sostanza immutabile. Così in Lui, è impensabile una natura o un’azione mutevoli; è impensabile che Egli muti la propria Volontà ed il Proprio Progetto solo perché noi lo preghiamo. E’ impensabile che Egli rompa le Sue Leggi, Leggi date con assoluto rigore alla natura, con azioni miracolose o straordinarie. La preghiera non serve a modificare la Volontà e le Decisione Divine, bensì solo ad esprimere una nostra speranza e una nostra esigenza di conforto.
Ciò che è “negativo” relativamente alla materia, appare in realtà come assolutamente positivo nei confronti della Natura Divina, e ciò perché l’imprecisione della mente umana è ancor più imprecisione del linguaggio umano, che deve rendere attraverso negazioni ciò che è un’essenza assolutamente positiva e sommamente reale.


L’ AZIONE DIVINA: EMANAZIONE O CREAZIONE ? QUALE CREAZIONE ?

I modelli o le prospettive dell’azione divina sono diversi: nelle religioni più primitive, la creazione del mondo è concepita come prodotto di un atto sessuale fra il Cielo e la Terra; in taluni altri casi (vedi la Bibbia nelle sue forme più antiche), il mondo e l’uomo sono effetti di una “fabbricazione”. Qualcosa di simile è presente nel “Timeo” platonico che spiega la nascita delle cose materiali come una fabbricazione compiuta dal Demiurgo, a sua volta creato dalla Divinità, seguendo come modelli le Idee del Mondo Iperuranio. Plotino andò oltre. Seguendo il mito solare, egli concepì la creazione come una serie di atti che emanano dalla stessa Divinità e che, allontanandosi spazialmente o temporalmente da Essa, si degradano progressivamente a pura materia. Come dal Sole si irradia la luce ed il calore che, allontanandosi si raffreddano, così la spiritualità divina, allontanando dall’Ente che la emana, si degrada a pura materia. Ciò servirebbe a spiegare come dal Sommo Bene, l’Uno, si possa avere il Molteplice e lo stesso Male. E’ un tentativo di razionalizzazione del mito che, tuttavia, non spiega nulla né della sostanza divina che non potrebbe mantenersi “integra” emanando se stessa, né della materia che, semplicemente perché più lontana da Dio cadrebbe nel male. Appare inconcepibile, in quanto contraddittoria, l’idea che la Perfetta Divinità si degradi emanandosi: è, tutto sommato, un concetto materialista della Divinità stessa concepita in modo che si proietti quasi o del tutto “fisicamente” e che questo proiettarsi presupponga un indebolirsi, un affievolirsi della propria qualità perfetta, con la pretesa tuttavia di poter restare uguale a se stessa.
Il concetto di creazione, come “fare dal nulla”, tipico della religione mosaica (nelle sue forme più evolute), cristiana e musulmana, è ignoto alla filosofia antica: l’intero mondo è un miracolo, un’opera di magia che però finisce per contraddire l’assoluta bontà di Dio, facendolo creatore diretto e responsabile del male e dell’insufficienza della materia; né, una volta ammessa la creazione della materia come opera unica di Dio che è assolutamente consapevole di Sé e della Sua opera, si può evitare di ritenerLo responsabile del male stesso. Né, ancora, serve arzigogolare, come tipico di certa filosofia cristiana, sull’inesistenza del Male stesso, una volta che ammetto che esista una Persona malefica, Satana, creato da Dio e col quale Dio “scommette” sul futuro dell’umanità e del mondo, il che pare assolutamente blasfemo ed infantile. Dio non scommette, Dio decide, e la Sua decisione inesorabilmente si attua. In questo, la religione zoroastriana che ammette l’esistenza di un Essere Malefico, del tutto autonomo e nemico del Bene (Angra Mainyu contro Ahura Mazda, Colui che crea col solo pensiero), è molto più logica, anche se insufficiente ugualmente a risolvere il problema in via definitiva, in quanto la lotta tra le due Entità non presenta decisamente una soluzione a favore del Bene contro il male, ma pare restare perennemente alla radice dell’Universo .
Ora, proprio il significato del termine iranico Ahura Mazda, ovvero Colui che crea col solo pensiero, ci aiuterà a superare la fase magica e controproducente del “fare dal nulla”, locuzione non molto sensata, anche se supera le più antiche. Sembrerebbe che questo “nulla “ sia una sorta di recipiente, un “qualcosa” da cui trarre qualcos’altro. Partiamo invece dalla definizione di Dio, come Ente semplice, che conosce, vuole ed agisce perfettamente, ed Immutabile. E’ logicamente inammissibile pensarLo come un’ essere che, dopo essere stato inattivo dall’infinito, improvvisamente, per amore (di chi ?, di chi ancora non esiste ?), si metta a creare, costruire o emanare qualcosa di diverso da Lui. Dio o agisce dall’eterno, è eternamente creatore, oppure è eternamente Immobile (come l’Atto Puro di Aristotele, il Pensiero di Pensiero). Ma se lo concepiamo Fattore, Creatore, dobbiamo presupporre in Lui un’azione altrettanto eterna. Ora, su chi o che cosa agirebbe Dio ? o su Se Stesso o sull’Altro, non sul Nulla che, non essendo, non può essere oggetto di azione. Se Dio agisse su se stesso, la Sua azione sarebbe inefficace, in quanto Dio è Semplice ed Immutabile; o, viceversa, modificando se stesso, ora sarebbe in un modo, ora sarebbe in un altro. Come dire: Dio ora sarebbe, ora non sarebbe, il che è ovviamente assurdo e contro la definizione di Entità perfetta e compiuta in Sé stessa. Dunque, è inevitabile sostenere che Dio agisca su qualcosa di diverso da Sé, che esiste dall’eterno fuori di lui, e che subisce quest’azione, che altrimenti risulterebbe inefficace e, di conseguenza, insussistente. L’Altro da Dio, che ne subisce l’azione, null’altro è che il Mondo materiale o fisico, della cui definizione ontologica tratterò più avanti .
Se in Dio l’Azione è perfetta, in quanto perfetto è il Suo Pensiero e la Sua Volontà, non così l’Altro che ne subisce l’azione, il quale, per sua natura, in parte accetta, ed in parte resiste all’azione di Dio. Di qui, l’insufficienza provvisoria, ma in progresso, dei risultati dell’Azione divina. Quando Dio crea, non agendo sulla materia, ma direttamente, Egli crea in modo perfetto. In questo senso, la Sua non è un’azione sul nulla, perché parte da Sé, ma è azione diretta, immediata, senza mezzi, compiuta. Il prodotto di quest’azione “col solo pensiero” costituisce un’entità simile, non identica a quella del Creatore: simile perché agente, immutabile e puramente spirituale, ossia “puntiforme”; diversa perché creata, non eterna, immortale (semiretta rispetto alla retta, semipiano rispetto al piano, ecc., per usare paralleli della geometria), agente, ma limitatamente al proprio settore o “campo” d’azione (missione singola, compito singolo). Per quanto ci consta, l’anima individuale è esattamente una di tali entità create direttamente da Dio, a guida ed ispiratrice di un essere umano, psicofisicamente inteso, il suo “angelo custode”, il “timoniere della nave”, ecc., tutti termini ambigui e riduttivi, ma di cui non possiamo trovare paragoni più precisi. Si potrebbe anche supporre l’esistenza, negli esseri viventi considerati inferiori all’uomo, per coscienza ed intelligenza, esseri non razionali, e così via, di entità spirituali di specie, di cui gli istinti sarebbero null’altro che la manifestazione psichica, a guida del loro comportamento tipico della specie. Ma questa è una supposizione della quale, allo stato attuale, non possiamo fornire né prove scientifiche, né semplicemente logiche, mentre l’esistenza individuale dell’anima ci è data dalla presenza in noi di una coscienza individuale che ci distingue, individuo per individuo, con i suoi princìpi logici ed etici, che ci rendono liberi e, dunque, responsabili delle nostre azioni, cosa che non sarebbe se, come gli animali, avessimo semplicemente istinti di specie, senza averne esatta consapevolezza. Noi, essendo consapevoli della presenza dei princìpi logici ed etici (quindi anche della distinzione tra Bene e male) dimostriamo di avere “vicino” a noi (più propriamente: immanente in noi) la presenza spirituale di un’entità-guida consapevole che, secondo la tradizione religiosa e filosofica, qualifichiamo anima individuale, entità spirituale, cosciente, immutabile, creata e non creante, ma agente sul nostro organismo psicofisico, in modo tale che, come il Mondo è sotto la costante influenza dell’Azione divina, così l’organismo umano è sotto l’influenza dell’anima che lo guida. L’organismo umano, tuttavia, ha durata limitata; il Mondo dura infinitamente . Il destino dell’anima, dopo la cessazione della vita organica, ci è ignoto. Che l’anima debba svolgere un ciclo di esistenze o che limiti la propria azione alla singola esistenza, ci è fondamentalmente ignoto. Possiamo essere certi solo che, essendo l’anima individuale immutabile e semplice come Dio, la sua azione futura non serve al perfezionamento dell’anima stessa, bensì al perfezionamento degli esseri umani in quanto organismi psicofisici. Dell’anima individuale possiamo conoscere la sua presenza immanente in noi, non possiamo conoscere né il suo futuro, né l’eventuale suo modo d’essere nei viventi in generale .


ONTOLOGIA DELLA MATERIA. IL RAPPORTO TRA IL MONDO E DIO (TEOCOSMOGOGIA: Dio Guida dell’Universo) .

Il mondo fisico, o materia generalmente intesa, è eterno, anzi co-eterno con Dio, non è da Lui creato, ma con Lui coesiste. In sé e per sé, astraendo dall’azione di Dio sul mondo, esso sarebbe statico in atto, quantunque mutevole in potenza. Risulterebbe un immenso spazio in cui particelle di minime dimensioni e di uniforme struttura, sarebbero ferme o si muoverebbero di moti uniformi, pressoché indistinguibili, singolarmente ed ancor meno nell’insieme (ciò che, fin dall’antico - cfr. Anassimandro - si disse apeiron l’Indeterminato o anche Vuoto, ovvero non il Nulla, che non è né può essere, come disse Parmenide, ma assolutamente ciò che non ha alcuna caratteristica definibile come “determinata”, specifica, singola, distinguibile dalle altre, pertanto assolutamente uniforme). La natura della materia, il suo status ontologico, è dunque mutevolezza. Il mondo fisico è Res Mutabilis. Errava, dunque, Cartesio nel presupporre che la materia sia, in sé e per sé, Res Extensa, perché ciò ci spingerebbe a chiederci, senza risposta, “estensione di che ?” . Se fosse pura estensione, sarebbe ridurre la materia a concetto geometrico, ovvero a pensiero (umano), ciò che Cartesio escludeva, attribuendo il pensiero al solo Spirito (e tagliando così la radice di ogni possibile rapporto tra materia e Spirito, tra corpo e anima). L’estensione è una condizione necessaria, ma non sufficiente, della materia, che si deduce dalla mutevolezza stessa. Infatti, la materia, in quanto ente mutevole, presuppone come condizione ontologica l’estensione di se stessa, mentre lo Spirito, Ente semplice ed immutabile, richiede come condizione ontologica l’assenza di estensione, la puntiformità .
Pertanto, la materia in sé e per sé è massa inerte, quantità pura ed uniforme, caratterizzata dalla sua mutevolezza, che può attuarsi solo nello spazio. Se Dio è coincidenza di Pensiero, Volontà ed Azione, di Essere e Dover Essere, Perfezione Assoluta, la Materia è pura Passione, Passività, capacità di subire l’azione, Perfettibilità. Tale passività si manifesta attraverso due operazioni fondamentali, da cui per astrazione nasce poi la matematica, ma che non sono originariamente matematiche, l’Addizione (aggiungere) e la Sottrazione (togliere), ovvero componibilità e divisibilità, quindi ricomponibilità. La Materia, subendo l’Azione divina (che quindi fa propria, “conoscendola”), si trasforma, si organizza, si associa e si disorganizza. La Materia non può essere pensata se non come infinitamente divisibile ed infinitamente ricomponibile, ma non come necessariamente divisa in modo infinito (se tale fosse, non potrebbe essere possibile il ricomporsi o il riunificarsi, anche in forme e corpi diversi dai precedenti). Se, dunque, non esiste l’atomo assoluto (come pensato da Democrito e ripreso dalla fisica newtoniana e post-newtoniana), esiste l’atomo relativo (ovvero, quella frazione di particella che ancora non è stata divisa o che noi non potremo mai concretamente dividere), la cui caratteristica essenziale è quella della sua uniformità ed indistinguibilità, anche se eventualmente con masse relativamente diverse .
La qualità generale della materia è di estendersi infinitamente (solo in senso traslato è “estensione”, uniforme, divisibile, componibile, passiva (solo come senso derivato, diventa “attiva”). Ciò che in essa cambia, non è mai la sostanza, la qualità generale, bensì le organizzazioni, le aggregazioni delle particelle (ovvero, come noi la conosciamo sensibilmente o tramite molteplici strumenti ed apparecchiature), le quali, come si associano, così possono disaggregarsi, dividersi, separarsi, riunirsi in blocchi diversi e nuovi .

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Senza alcuna pretesa di sconvolgere le prevalenti dottrine della fisica scientifica, cosa per la quale non ho specifiche conoscenze, mi limito ovviamente a quelle osservazioni ed obiezioni sul terreno filosofico ovvero puramente razionale (metafisica della natura - metafisica della materia), nei punti limitrofi alla scienza fisica propriamente detta, nonché, tuttavia, a fondamentali questioni di metodo. Ogni scienza ha una propria metodologia che deve tener conto sia del procedimento mentale umano, sia della natura dell’oggetto studiato, in quanto se una scienza pretendesse di proporre un metodo unico di valenza universale per ogni oggetto specifico (non è la medesima cosa studiare i micro-organismi o gli astri o il corpo umano o il nostro pianeta, ecc., per cui ciascuno di questi oggetti di studio richiede ovviamente metodi diversi), finirebbe per cadere nell’illusione scientista che è assolutamente anti-epistemologica (ovvero, contraria alla logicità e coerenza di un rigoroso metodo scientifico). Tuttavia, come ogni scienza ha un proprio metodo, questo tuttavia non può prescindere dalla logica e dalla razionalità, ovvero rispettare i princìpi fondamentali di identità, di non contraddizione e di ragion sufficiente (inteso sia come causa efficiente, sia come finalità: ogni cosa che non abbia in sé la propria causa, ovvero sia eterna, è prodotta da altro; ogni cosa che non abbia il fine in sé, per lo stesso motivo, ha il fine in altro). Qualunque sia il metodo specifico, esso non può violare questi princìpi e, dove questo avvenga, lì non è scienza, ma magia o pura fantasia .
Come indicare la differenza tra un’ontologia della materia e la fisica, sia tradizionale (newtoniana), sia attuale (einsteiniana e successiva) ? L’ontologia della materia procura, intanto, di dimostrare la prevalente o totale convenzionalità della fisica nei suoi dati e nelle sue formule, nella sua pretesa di esaustività almeno tendenziale. L’ontologia della materia, disciplina strettamente filosofica e razionalmente critica, mira a fissare punti reali effettivamente conosciuti e conoscibili per l’uomo sul mondo fisico; non è dunque esaustiva, né in tutto né in parte, ma è conoscenza completa e completabile rispetto ad alcune qualità della materia, non intesa soltanto come quantità matematica, che rappresenti delle leggi generali ed indecifrabili. Si presentano, tra i due tipi di scienza, non solo oggetti di studio e di ricerca diversi, seppure limitrofi, ma anche una metodologia notevolmente differente, che nella fisica è essenzialmente matematica (calcoli astratti, procedimento per astrazioni espresse in formule, leggi non sempre sperimentalmente o osservativamente verificabili), dove la ragione logica si riduce a calcolo meccanico su entità uniformi; nell’ontologia, si procede razionalmente sulla base dell’osservazione empirica dei fenomeni, rifiutando la contrapposizione tra infinitamente piccolo ed infinitamente grande come se retti da leggi diverse ma considerandoli retti da una medesima legge ed analoghi in sé, tenendo sì conto dell’esperimento, ma non seguendo le misurazioni, quanto i rapporti effettivi tra fenomeni nel loro evolversi .
Così fisica ed ontologia della materia non vanno visti in una reciproca negazione, ma complementarmente, con la subordinazione del metodo matematico al metodo logico generale, evitando ogni forma di unilateralismo. Così, l‘impostazione matematica e quella ontologica devono controllarsi e verificarsi reciprocamente in un metodo dialettico, che tenga conto della complessità dei fenomeni reali.
Ahimé, la fisica teorica e sperimentale d’oggi tende, viceversa, all’unilateralismo, a non vedere oltre e con sé l’esistenza di nulla che possa dirsi comunque scienza, anche se con differente metodologia. Pretendendo di essere autosufficiente ed autarchica, rischia presto un collasso, non solo teorico (il che sarebbe di poco danno, perchè reversibile), ma anche materiale con disastri di gravità incalcolabile (pensiamo alla potenza nucleare e a forme analoghe di ricerca sul campo) .

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Isaac Newton, trattando dei “princìpi matematici della filosofia naturale” (per cui dovrebbe trattare di matematica del mondo, ma qui lo scienziato fa molta confusione, facendo rientrare Dio nella geometria e questa nella meccanica, riducendo così Dio stesso ad un semplice principio matematico, ed ipostatizzando la geometria nel funzionamento del mondo: ma di ciò a parte), parla di forze che, come ben rilevò Berkeley contro di lui, egli non definì, né chiarì concettualmente. Egli espone alcune regole: non supporre cause diverse da quelle necessarie (eh, sì, ma la cosa è tautologica; non possiamo supporre preventivamente quali siano necessarie e quali no); effetti uguali dipendono da cause uguali (idem…), le qualità generali dei corpi su cui si possa sperimentare devono ritenersi qualità di tutti i corpi (frase un po’ oscura e confusa: se le qualità appartengono a tutti i corpi è evidente che siano qualità dei corpi). Aggiunge che l’estensione si conosce per mezzo dei sensi: in realtà, è la materia, con la sua consistenza, che si sente tramite i sensi, e non l’estensione. Poi arriva una sparata, tipica di chi, senza essere vero filosofo, ritiene di poter fare filosofia : “Che tutti i corpi siano impenetrabili noi lo concludiamo col senso, e non dalla ragione”. Nulla di più inesatto: la materia è impenetrabile di fronte alla ragione, e non al senso. Prendiamo un bicchiere d’acqua e poniamoci del sale o dello zucchero, o un colorante. Se non avessimo un bicchiere graduato (e la graduazione dipende esattamente dalla ragione, non dal senso), non ci accorgeremmo affatto che il liquido ha occupato uno spazio maggiore. Sembrerebbe, a vista, che l’acqua con la sostanza aggiunta mantenga sempre il proprio volume. Così sappiamo che la materia può essere “penetrabile” proprio perché la disgreghiamo. Se così non fosse, la materia sarebbe continua ed indivisibile, le sue parti sarebbero sempre separabili. Il principio di impenetrabilità sostiene che dove c’è un corpo, non ve ne possa essere un altro, che lo spazio occupato da una sostanza non può essere, al tempo stesso, occupato da un’altra. Ma questo è null’altro che il principio di non contraddizione applicato alla materia in generale: infatti, se un corpo potesse penetrare nell’altro, condividendone il medesimo spazio, la stessa cosa sarebbe due cose diverse, la stessa materia sarebbe due materie, mentre il principio di non contraddizione afferma che nessuna cosa può essere e non essere nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto; oppure in contrasto col principio del terzo escluso (applicazione del principio di non contraddizione fra due enti diversi) una materia sarebbe un’altra, mentre tale principio afferma che un ente o è in un modo o è in un altro, o si trova in un luogo, ovvero in un altro. Dunque, il principio di impenetrabilità è logico, non un fatto sensibile. Sappiamo altresì oggi, cosa che Newton non poteva sapere, che particelle minime (es., il neutrino) possono penetrare anche attraverso lastre d’acciaio o di piombo. Lo stesso dicasi per certi tipi di radiazione che penetrano nella roccia (raggi cosiddetti “cosmici”). Sorvoliamo sulle apparizioni spiritiche che fanno vedere, a chi vi crede, corpi evanescenti (probabilmente sciami di particelle sub-atomiche, se esistessero effettivamente) attraversare muri e porte chiuse .
Secondo Newton, la natura della materia è identica, tanto nell’immenso, quanto nel minimo, e ciò è condivisibile, con questa precisazione. Nell’immensità o infinità la materia è tanto più varia nelle sue aggregazioni, mentre nel minimo è tanto più semplice nelle sue aggregazioni. Per intenderci, un atomo è molto più semplice di un sistema solare o di una nebulosa. Egli poi senza affatto qualificarle in un qualche modo parla di forza di gravità e di forza d’inerzia, intese come forze universalmente operanti. Procediamo seguendo alcune sue definizioni: “La quantità di moto è misurata dal prodotto della velocità per la quantità di materia”, ma come se la velocità è solo la misurazione del movimento di un corpo, ovvero estensione della linea percorsa in un dato tempo ? Se il moto fosse prodotto della velocità, bisognerebbe allora sostenere che è prodotto del prodotto spazio-tempo. E poi aveva sostenuto che non si dovevano moltiplicare le cause, oltre quelle necessarie (il celebre “rasoio di Ockham”)! Il moto è semplicemente lo spostamento, autonomo o provocato, di un corpo da un luogo ad un altro della linea che unisce il punto di partenza al punto di arrivo, ed oltre. La velocità ne è la valutazione numerica, mettendo in relazione il percorso lineare col tempo impiegato a concluderlo. Altra definizione piuttosto vaga è la seguente : “La forza insita nella materia è la potenza a resistere onde un qualsiasi corpo, abbandonato a se stesso, persevera nel suo stato di quiete o di moto uniforme e rettilineo”. Non necessariamente rettilineo, perché potrebbe essere anche curvilineo aperto o chiuso. Siamo al principio di inerzia, il quale, ben lungi dal costituire una “forza”, è viceversa assenza di una forza, ed è l’elemento base della materia stessa, vista autonomamente. Un corpo, fermo o mosso, persevera in questo stato, se non è modificato da qualcos’altro che interrompa l’inerzia. Il moto inerte, come già da lui detto, è un moto uniforme. Dire che la forza è una potenza è dire esattamente nulla, soprattutto se per “potenza” intendiamo il “poter essere”, ovvero il non essere ancora, l’essere futuro. L’inerzia presuppone logicamente l’assenza di forza, sia esterna che interna, e non la “potenza” di qualcosa. Si tratta dell’applicazione del principio di causa efficiente: è necessario presupporre un ente esterno che agisca sull’ente statico o mosso, attraverso un’azione reciproca: l’ente A, interferendo nello spazio dell’ente B, per il principio di inerzia lo sposta, ma non tanto quanto l’azione lo farebbe prevedere, perché l’ente B per la propria impenetrabilità resiste all’ente A e ne indebolisce o rallenta l’azione di spinta (come dall’assioma: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, naturalmente in senso relativo, perché la reazione è causa di reazione dell’ente A, fino a che le azioni-reazioni non si riequilibrano, considerata anche la resistenza dell’ambiente esterno – aria, acqua, ecc.).
Ancora, egli definisce correttamente la “forza” come “azione esercitata su di un corpo, per mutare il suo stato di quiete o di moto”, ma allora la forza non è la realtà della cosa, come sembrerebbero poi dedurre altri, una realtà in sé, ma è semplicemente (come l’energia) l’azione dei corpi tra loro, e non necessariamente per modificare una situazione, ma anche eventualmente per conservarla (ad esempio nel moto curvilineo chiuso, circolare, ellittico, ecc.). Ovvero, senza il corpo che agisce sull’altro corpo, non esiste alcuna forza in sé. Forza è pertanto azione di un corpo su un altro .
Per Newton esiste la forza centripeta, costituita dalla gravità e dal magnetismo, ma se è l’intero corpo ad attrarre l’altro (il corpo maggiore attrae il minore, ma anche viceversa: confronta la Luna che determina le maree), la forza non si può dire centripeta ma semmai “omnipeta”, nel senso appunto che l’attrazione è data da tutto il corpo, sicché se uno potesse trovarsi al centro della terra potrebbe non sentire alcuna forza di gravità, in quanto ogni direzione ne eserciterebbe una (ovviamente questo è teorico). Quanto poi al presupposto che la forza di gravità sia data dalla sola massa, senza tener conto del tipo di materia, ciò mi sembra almeno dubbio proprio per quel particolare tipo di gravità dato dal magnetismo (dove il magnete attira il ferro, e solo il ferro), e la plastica sfregata e riscaldata può attrarre pezzettini di carta. In sostanza, i fenomeni elettromagnetici dimostrano che la forza di gravità può subire condizioni diverse a seconda di differenti materiali e situazioni. Per verificare che la forza di gravità sia indipendente dal materiale, occorrerebbe sperimentarlo nel vuoto interstellare, senza influenza di grandi corpi celesti. In tal caso, anche il corpo umano dovrebbe costituire una forza di gravità tale da attirare su di sé corpi inferiori o essere attratto da corpi maggiori, il che non sembra accadere su astronavi reali, ma questo potrebbe dipendere da un’influenza comunque esistente di altri corpi celesti, anche se molto più debole che in diretta vicinanza. Nello spazio “vuoto” si potrebbero confrontare oggetti della stessa massa, ma con materiali diversi per verificare se la forza di attrazione o di gravità dei corpi è uguale, se uguale sia la massa, indipendentemente dalla materia .
Riguardo al tempo ed allo spazio, Newton distingue l’uno e l’altro in assoluto (durata) e in relativo (quello creato dall’uomo, sulla base dei moti terrestri e celesti). In effetti, come dirò più avanti, il tempo non esiste, ma è una dimensione mentale umana (come già sostenuto da Kant), né in senso assoluto, né relativo, a meno di non far coincidere la durata con l’esistenza stessa di una determinata realtà, per cui allora il tempo assoluto null’altro sarebbe se non l’esistenza della cosa stessa o l’esistenza del mondo conosciuto. Per spazio assoluto, egli intende il “contenitore” infinito dell’Universo, un’infinità geometrica composta da punti (enti geometrici senza dimensione). Anche questo non esiste perché sarebbe impossibile, anche mentalmente, separare un contenitore infinito da un infinito contenuto, o viceversa. Si tratta anche qui di astrazioni puramente mentali e strumentali, utili alla misurazione della realtà.
Newton fa dello spazio geometrico o assoluto lo strumento con cui Egli comunica con la materia, tanto da chiamarlo “sensorium Dei”. Pur non volendo spiegare Dio in termini panteistici, e quindi si sforza, in modo non chiaro e poco ragionevole, di mantenerne l’assoluta trascendenza, tuttavia Lo afferma come “onnipresente” non solo virtualmente (ovvero, come se fosse onnipresente, essendo onnisciente e creatore), ma anche “sostanzialmente”, con il che sarebbe facile scadere nel panteismo se Egli è una sostanza onnipresente nelle altre. Inoltre lo qualifica “tutto occhio, tutto orecchio,tutto cervello, tutto vis sensitiva, intelligente, agente, ma per nulla umano, per nulla corporeo…”: potremmo allora qualificare Dio come un’entità più geometrica ipostatizzata, che non un’entità spirituale. Insomma, quantunque egli cerchi di concordare la fisica e la matematica con la teologia, Berkeley ebbe buon gioco nel sottolinearne le molteplici inesattezze. Se Pascal potè accusare Cartesio ed altri razionalisti di dare a Dio solo la funzione di motore iniziale, Newton potrebbe essere rimproverato di fare semplicemente un effetto finale, neppure logicamente dedotto, per quanto Newton ribadisca esplicitamente che, senza Dio, sarebbe impensabile pensare un universo matematicamente funzionante (e similmente ripetè la stessa cosa Einstein, quando sosteneva che un Dio che gioca a dadi con l’esistenza sia impensabile) .


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George Berkeley, sacerdote irlandese, nel suo “Trattato sui princìpi della conoscenza umana”, criticando Newton prelude in certa misura alla fisica attuale, assai meno certa ed assai meno ipostatizzata. Molto interessante, nel § 103, la sua critica al concetto di attrazione o gravitazione, osservando che “nulla vien detto di preciso circa il modo o l’azione, e si potrebbe con altrettanta chiarezza… chiamarla impulso o proiezione…”. In effetti, l’esistenza di una forza di gravità è sicuramente verificabile, ma da che cosa sia determinata, lì il discorso cambia. Verifichiamo un fenomeno fisico, ma non sappiamo spiegarcelo. Possiamo eventuamente anche calcolarlo, ma il dire se dipende o meno dalla sola massa, o da qualche altro fattore (come, viceversa, nel magnetismo, per cui la calamita attrae il ferro e non altri metalli o altre cose; oppure, la plastica sfregata i pezzettini di carta) è qualcosa che non possiamo fare. Dunque, per Berkeley, come per noi, Dio può soltanto essere pensato come motore o creatore perenne del mondo così come lo conosciamo, non una semplice astratta presupposizione. Soltanto la volontà di Dio (dello spirito, dice più genericamente Berkeley) fa reali le cose per noi solo pensabili. La stessa forza di gravità è un obiettivo della volontà divina. A mio parere, la cosa non sta esattamente così, perché altrimenti non si spiegherebbe la difficoltà e la resistenza del mondo ad ordinarsi secondo la volontà di Dio. Quello di Dio è un ordine che la materia comprende limitatamente, ma progressivamente, e che esegue con “fatica” e “tempo”, per la sua stessa inerzia di base. Le leggi della Natura sono indirettamente leggi divine: sono più esattamente “interpretazioni” ed “applicazioni”della Volontà divina che la Materia fa in se stessa .
Un breve cenno al concetto di materia in Leibniz e Wolff, concezioni molto simili, ma non del tutto identiche, in quanto il secondo dichiara di non accettarne la monadologia (ovvero, dottrina delle monadi o altrimenti dette punti metafisici - termine usato anche da Vico con altro senso), come centri di forza privi di dimensione, mentre Wolff sostiene che ciascun elemento esteso ed indivisibile ha una propria forza. Secondo ambedue, la forza è alcunché di presente intrinsecamente alla materia e ad ogni sua parte, anche infinitesima, ma anche verso di essi Berkeley potrebbe obiettare che non definiscono in modo chiaro e comprensibile la forza stessa, intesa come “fonte del mutamento”, che diventa così un’entità matematica, che si postula e non si dimostra (spesso oggi si fa anche maggior uso di modelli matematici per spiegare fenomeni naturali, ma tali modelli non sono che fittizie ipotesi impassibili di dimostrazione, con i quali però sempre matematicamente si ritiene di poter dimostrare la realtà. Si sviluppa così un’analogia col procedimento sillogistico degli aristotelici, i quali, attraverso una serie di logicissimi ma astratti sllogismi, pensavano di poter dedurre l’intera realtà, anche nei minimi particolari. Qualcosa del genere si ha pure con Hegel e col suo metodo triadico dialettico. Ora, con tali astratte procedure non più sillogistiche ma algebriche, algoritmiche o logaritmiche, si arriva all’idea che, inserendo dati un un computer, si scopra qualcosa di più di ciò che il computer, semplice registratore, ha nella sua cosiddetta memoria e che vi è stato inserito. In tal modo si giunge a certe assurdità parascientifiche ecologistiche per le quali, aumentando la temperatura atmosferica, i ghiacci si sciolgono, ma - assai stranamente – l’acqua non evapora !) .


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Infatti, l’illusione dei neo-pitagorici è appunto questa. Vediamone un esempio significativo, ovvero quella particolare definizione dell’energia, data da Einstein, come prodotto tra la massa e il quadrato della velocità della luce (E = MV2), il che significherebbe E = M x (300.000 km/s)2. Sorvolando quanto sia in realtà difficile, se non impossibile, misurare la velocità della luce nel vuoto e nel pieno (aria, acqua, vetro, ecc.), che cosa può significare, in concreto, il quadrato della velocità ? Semplicemente fare il quadrato di numeri, ma non realizzare un’operazione concreta. Poiché la velocità implica due entità diverse, il tempo e lo spazio, come è possibile moltiplicarle nella realtà e farne addirittura il quadrato ? Il “quadrato” è in realtà una figura geometrica, la cui area si ottiene moltiplicando lato per lato. Ora questo ha un significato concreto perché, supponendo che il lato del quadrato abbia n punti, moltiplicare significa calcolare quante file di punti genera il lato orizzontale, tracciandole parallelamente al lato verticale, e reciprocamente. Sicché avremo n file di n punti, moltiplicando i punti per le file otterremo esattamente n x n ovvero n2 .
Per capire meglio questo ragionamento, occorre chiarire che nella materia sono concretamente possibili solo due operazioni: l’aggiungere e il togliere, ovvero l’addizione e la sottrazione. Quella che chiamiamo moltiplicazione non è che un’addizione ripetuta con addendi uguali, mentre la divisione è una sottrazione ripetuta con sottraendi uguali. Ma, per togliere ed aggiungere concretamente qualcosa, occorre che gli elementi da aggiungere o sottrarre siano omogenei, o almeno considerati come tali. Ora, che cosa vuol dire moltiplicare la massa per il quadrato del prodotto dello spazio moltiplicato per il tempo ? Ovviamente si può fare considerando le relative quantità come numeri, come segni, non sicuramente come realtà effettive, perché la velocità già di per se stessa è un’astrazione del rapporto tra il tempo e lo spazio attraversato da un corpo in movimento o, anche, movimento di un corpo calcolato in un dato tempo.
Ancora, ogni moltiplicazione implica un moltiplicando (quantità data) moltiplicato (cioè, ripetutamente sommato) per un moltiplicatore, che indica le volte, ovvero quante addizioni sono state fatte con addendi uguali. Per cui, la massa moltiplicata per la velocità non può dare nulla di diverso che quello indicato dal moltiplicando, ovvero non l’energia pretesa, bensì la massa stessa (praticamente, M + M + M….. fino a V2 addendi). In sostanza la tanto reclamizzata formula di Einstein non spiegherebbe per nulla la massa o l’energia, ma semplicemente addizionerebbe la massa per tante volte uguali quante indicate dal moltiplicatore, ovvero il quadrato della velocità della luce: il che è pura fantasia .
E’ evidente che un’energia così calcolata è solo un modello matematico della realtà, non una realtà effettiva o una concreta misurazione della realtà. Energia, dal greco energeia, null’altro significa se non azione, al modo stesso della forza, per cui è “energia” soltanto l’azione prodotta da un corpo sugli altri (ad esempio, il fuoco, bruciando un combustibile, produce calore, ovvero una variazione nella materia in riferimento alle nostre sensazioni di caldo e di freddo che sono relative al nostro corpo, ovvero se la temperatura esterna è più bassa di quella del nostro corpo, sentiamo freddo, se è prossima a quella del nostro corpo la diciamo tiepida, se è più alta la diciamo “calda”. Se si preferisce, per una maggiore obiettività metodologica, diremo che è caldo ciò che dilata, è freddo ciò che restringe, ma anche questo non avviene sempre: il ghiaccio ha una forza di dilatazione, spaccando i tubi di metallo o il vetro. Non esistono quindi un caldo ed un freddo assoluti). Se questa azione si manifesta in movimento, la qualifichiamo come energia motrice; se riguarda il calore la qualifichiamo come energia calorica; se riguarda l’attrazione dei corpi, la qualifichiamo magnetica; se riguarda la vita organica, la qualifichiamo vitale, ecc.: ma tutto ciò non riguarda altro che la reciproca influenza e trasformazione dei corpi tra di loro. Chi sostiene la formula “tutto è energia” non sembra rendersi conto di sostenere non una definizione della realtà, ma la definizione del nulla, in quanto l’energia è azione tra corpi, ma se sostenessimo (come del resto a suo tempo fece l’idealismo tedesco) che tutto è azione e basta, significherebbe che i corpi non sussistono o sono frutto di un’azione di per sé esistente. La realtà sfuma e diventa soltanto una parola. Ben diversamente, si deve dire “Tutto produce energia”, ovvero ogni materia esistente, convenientemente adoperata, consente l’azione tra i corpi o, ad esempio, come comburente o come combustibile. Ogni materia, agendo su altri corpi, li trasforma, e ciò può essere utile ai fini dell’uomo e per la trasformazione ambientale.
Tutto ciò chiarito, va riconosciuto che l’utilizzazione di modelli matematici può essere talvolta utile a chiarire, non tanto un fenomeno, quanto le ipotesi possibili sulla meccanica del fenomeno stesso. Se pensiamo che l’ipotesi copernicana, a sua volta derivata da ipotesi pitagoriche, come quella di Filolao, e più tardi dalla teoria di Aristarco di Samo, è nata semplicemente come modello matematico per chiarire ciò che il sistema tolemaico non chiariva nei moti apparenti degli astri rispetto ad una Terra considerata ferma nel centro dell’universo. Ma anche tale ipotesi rientrava comunque in una concezione dell’Universo che non superava i limiti del sistema solare e che, pertanto, considerava il Sole centro del sistema planetario, con orbite perfettamente circolari. Solo Keplero e Newton riuscirono a dimostrare con maggior precisione i moti celesti, quando compresero che le orbite dei pianeti attorno al Sole erano non circolari, bensì ellittiche .
Sempre di Einstein, esaminiamo brevemente la cosidetta teoria della relatività, nella sua doppia formulazione, ristretta e generale. Tutto parte dalla relatività che si trova in Galilei, e che ben prima di lui si trova in Sesto Empirico, filosofo scettico del II secolo d. C, il quale nell’opera “Contro i matematici” si occupò anche di dimostrare come fosse impossibile, tanto più allora, calcolare il momento esatto della nascita, sia per il fatto stesso (concepimento o parto, e momento del parto), sia in riferimento all’osservatore astrologico che pretendesse di determinare con esattezza l’apparizione della stella, sotto la cui influenza sarebbe stato soggetto il neonato. Sostiene Galilei che non si possa stabilire, tra due corpi in moto, quale sia fermo rispetto all’altro, soprattutto se essi si trovano in moto uniforme. Ma l’esempio che Galilei fa di una nave nella quale chi è all’interno non si rende conto del moto della nave è impreciso per più di una ragione, cominciando dalle dimensioni di tale nave, assai più piccola rispetto all’intero pianeta. Semmai si potrebbe parlare non di un uomo nella nave, ma di una formica o addirittura di un virus (per dimensioni, non per intelligenza), il quale starebbe alla nave come l’uomo rispetto al pianeta. Solo in tal caso si presume che l’essere piccolissimo non si renderebbe conto del moto della nave. Un altro esempio, valido per noi non per Galilei o per Newton, quando si è in treno di notte, pur sentendo il rumore del treno, e quindi si sa che esso è in movimento, se non vi sono luci esterne, non ci si rende conto in quale direzione si viaggi. Nel caso della nave, sappiamo che è in movimento, sia per il beccheggio della nave, sia perché ci rendiamo conto del suo movimento purché sappiamo di essere partiti, e perché è conseguenza della nostra volontà che la nave avanzi, mentre del nostro pianeta non ci rendiamo conto del suo movimento, né per suoni o rumori, né perché dipenda dalla nostra volontà di viaggiare: e l’unico modo, indiretto, per rendercene conto è l’apparente moto dei vari corpi celesti.
Senza sapere quello che ormai sappiamo, si può benissimo credere che noi siamo fermi e siano tutti gli altri corpi celesti a ruotare attorno a noi: la sensazione visiva è identica. Le cose non potevano combaciare, viceversa, volendo calcolare tali moti, perché se è la Terra a muoversi le posizioni degli astri sarebbero diverse, in un determinato momento, rispetto al caso che sia la Terra a muoversi ed il resto a star fermo. Ma anche questo secondo caso non è valido, in quanto di fatto tutto si muove rispetto al tutto e le rispettive traiettorie, ormai lo sappiamo, non sono circolari, bensì ellittiche. Il calcolo del moto stellare è quindi ben più complesso, e Sesto Empirico già nel II secolo a.C., lo intuì, pur accettando la teoria aristotelico-tolemaica, ma relativizzandola .
Per Einstein, la relatività ristretta fa cadere il principio di un punto di riferimento assoluto, non solo nella meccanica, come per Galilei, ma in tutte le leggi della natura. Ciò fa crollare ogni forma di determinismo nella fisica ed in ogni altra scienza. Ora, per esprimere un concetto tutt’altro che nuovo (la filosofia greca lo aveva da tempo dimostrato, perlomeno fin da Protagora), lo si maschera con formule matematiche che non significano nulla (del tipo di questa: F = m0a = - d/dt.m0v, oppure, con parole assolutamente vaghe, “… se le leggi enunciate da Newton dovevano essere rivedute, poiché non sono invarianti rispetto alle trasformazioni di Lorentz, dovevano restare vere almeno nel caso di velocità piccole rispetto alla velocità della luce; infatti in questo campo limitato avevano ricevuto numerose formule sperimentali…”, per cui alla precedente formula si dovrebbe sostituire la seguente, sicuramente non meno “chiara” :
F = d/dt [m0v/ rad. quadr. di 1 – v2/c2].
Veramente limpido ! E’ ovvio che, con questi linguaggi, si può dimostrare tutto, riducendosi ad espressioni di natura algebrica, che sicuramente possono dare un risultato, ma un risultato appunto algebrico, al di fuori di realtà verificabili, ma sicuramente comode con uso di calcolatori. Va detto che non ho nulla in contrario all’uso di formule matematiche, tuttavia ciò va accettato ove si capisce che ciascun segno ha un significato numerico riferito alla quantità di qualcosa, che a sua volta non è solo un’idea vaga, ma è qualcosa di tangibilmente concreto .
Vediamo ora come venga spiegata la relatività generale : “…Il principio di relatività generale… proclama l’invarianza delle leggi naturali per tutti e soli [sic !] i sistemi inerziali…se un osservatore che si trovi entro una nave in moto non può rilevarne il moto uniforme, può tuttavia rilevarne il moto non uniforme. D’altra parte, negata la realtà dello spazio assoluto, non si comprende l’esistenza di sistemi di riferimento privilegiati. Einstein ritenne di poter estendere il principio di relatività…: tutti i sistemi di riferimento devono essere equivalenti per ciò che concerne la formulazione delle leggi di natura. A questo egli aggiunse un altro principio … di equivalenza : i fenomeni osservabili in un sistema mobile con accelerazione costante rispetto alle stelle fisse non differiscono dai fenomeni omologhi ossevabili in un campo di gravitazione uniforme…” . Per ragioni di brevità, preciso che le citazioni fatte in corsivo, qui e precedentemente, in questo settore sono tratte dall’Enciclopedia Garzanti delle Scienze (Garzantina) 2005. Aggiungo a conclusione un’altra formula (magica ?) di rara bellezza e di maggior chiarimento :
(t2 – t1)2 – (x2 - x1)2 – (y2 – y1)2 – (z2 – z1)2 .
Avverto che i numerini sono elevazioni a potenza che non ho la possibilità di elevare nel mio scritto, per ciò li mantengo al medesimo livello delle lettere, anche se con carattere minore. Ricordo che, per quel poco di mie reminiscenze degli studi algebrici, elevare alla potenza 1 è assolutamente inutile, per cui sarebbe bastato indicare la singola lettera, ma naturalmente l’uso e l’abuso di simboletti dà una maggiore impressione di contenuti che non vi sono. Ora non so se tutto questo ha contribuito o meno alla scoperta della scissione nucleare, alla bomba atomica e ad altre cose, però in piena sincerità devo osservare che sembra più un gioco da apprendisti stregoni (ancorché assai pericolosi), piuttosto che di seria scoperta scientifica.
Di formula in formula, si è arrivati alla grande dottrina del “buco nero” e del big bang: è tipico della lingua inglese, particolarmente nella sua versione americana, l’abuso di termini illogici, poco scientifici ed onomatopeici, In effetti il “buco nero” è esattamente l’assoluto contrario di un buco, trattandosi di un corpo celeste la cui potenza di gravità è talmente elevata da trattenere finanche la luce. Dunque, trattasi di un corpo di assoluta compattezza, il che dimostrerebbe il contrario di quanto sostenuto da Newton sulla massa come proporzionale in assoluto alla forza di gravità. Ma se un corpo di minime dimensioni ha tale forza di gravità, significa evidentemente che la gravità è differente per materia, e dipende solo in parte dalla massa o dal volume. In quanto al big bang (letteralmente “grossa esplosione”), anche tale teoria non ha in sé nulla di nuovo, in quanto già gli Stoici ipotizzarono la nascita e distruzione di mondi, in una serie di cicli di esplosioni e implosioni o, più correttamente, ricompattamenti della materia. Solo che gli Stoici, sicuramente più logici, sostenevano che le conflagrazioni dell’Universo si avevano alla fine e non all’inizio di un mondo. Ingenua poi è l’idea che un universo, concentrato in un minimo volume dall’eternità, decida ad un tratto di esplodere senza alcuna ragione apparente, esterna e neppure interna, così quasi per divertimento: ecco, oggi esplodo e, in pochi secondi, mi espando nell’intero Universo. Naturalmente, il tutto corredato da algoritmi, logaritmi, espressioni algebriche, calcoli computerizzati, e così via, che non hanno maggior significato (anzi !) di quelle concatenazioni di sillogismi che deliziavano gli aristotelici. Till Eulenspiegel, figura satirica delle Università germaniche nel Medioevo, sfidò i suoi avversari a dimostrare che il numero delle stelle non corrispondesse a quello da lui fissato in una serie di miliardi. Ai tempi di Till non esisteva ancora il telescopio, tuttavia già allora contare le stelle era praticamente impossibile. Così oggi questi grandi teorici dell’astrofisica vi dimostrano che il mondo è nato da un’esplosione sciorinandovi un certo numero di indimostrabili ed indigeribili formule algebriche. Con tali formule possiamo costruirci bombe atomiche e centrali nucleari sicuramente, ma otteniamo solo dei risultati negativi, distruttivi. Ci comportiamo come apprendisti stregoni se non riusciamo ad ottenere la reversibilità dei fenomeni realizzati. Nel campo della fisica atomica e subatomica, non siamo ancora in grado di realizzare una chimica subatomica, non siamo ancora in grado di trasformare un qualunque elemento in un altro, agendo sui suoi elettroni e positroni (che, stante l’attuale fisica, sono perfettamente uguali per dimensione e per qualità, sia che appartengano ad un atomo di idrogeno, sia che appartengano all’atomo di piombo o di ferro), mentre invece nella chimica normale possiamo indefinitamente da un composto ottenere un altro composto o scinderlo negli elementi che lo compongono, e viceversa. Siamo insomma assolutamente lontani dal poter creare la vera “pietra filosofale”, ovvero lo strumento per trasformare un qualunque elemento in un altro. Sulla radioattività sappiamo che cos’è (o, almeno, ci illudiamo di saperlo), sappiamo riprodurla con una reazione a catena, ma non sappiamo tornare indietro, ovvero annullare o ridurre fortemente la radioattività prodotta. Sicché qualunque centrale nucleare, pacifica o militare che sia, può costituire un pericolo immane anche a grandi distanze, sia nel caso di guasto, sia soprattutto se fosse colpita da bombe sufficientemente potenti. In sostanza, un fenomeno è veramente conosciuto quando è reso reversibile, ovvero lo si domina sia nelle sue cause, sia nei suoi effetti .
Ripeto, non voglio negare un’utilità concreta di questi modelli matematici, come base di calcolo di fenomeni altrimenti sfuggenti, purché tuttavia si ricordi che non di realtà effettive si parla, bensì di modelli la cui funzione è esclusivamente utilitaria, e non ontologica; sono simbolici, non effettivi: il che li apparenta al celebre triangolo equilatero costituito dalle lettere di “abracadabra”, leggibile su ogni lato del triangolo. Realizziamo una formula il cui uso, tuttavia, è puramente fantastico o, nel migliore dei casi, ipotetico .


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Volendo chiarire poi certi nostri rapporti di conoscenza con le cose, dobbiamo qualificare in modo costruttivo i concetti di relativo (o relatività) e di assoluto, onde non finire in un totale nichilismo caotico e confuso, che non sarebbe nient’altro che il suicidio del pensiero umano e, alla lunga, il suicidio della specie. Il concetto di relativo non implica affatto la nullità di ciò che stiamo esaminando. Relativo indica relazione, ovvero rapporto tra due o più realtà, anche come concetti. Se noi dicessimo: non c’è nulla di assoluto, ma tutto è relativo, diremmo un’assurdità, perché il relativo riferito all’intera realtà risulterebbe semplicemente una catena di relazioni la quale, o termina con un valore considerato assoluto, ovvero stabile, fermo, immutato, o altrimenti termina in un nulla, in un incomprensibile (nichilismo). Se dovessimo arrivare ad una conclusione inconcludente (conclusione solo per ragioni di tempo, non per necessità teorica), tutto il nostro lavoro perderebbe di significato. Per cui, l’esatta formulazione di una relatività deve essere posta in tali termini: tutto è relativo ad un Assoluto. Determinare l’Assoluto è dimostrare l’esigenza di un Valore Massimo, dal quale partire e al quale arrivare, sebbene tale determinazione possa essere imprecisa. La nostra coscienza ci dice che l’assoluto esiste. La nostra conoscenza, parte per intuizione o constatazione, parte per dimostrazione, ci consente una formulazione progressivamente sempre più precisa e migliore di tale Assoluto. Sicché, si parte da Dio per arrivare al Mondo, ma dal Mondo si ritorna a Dio. L’alternativa è quella di vagare da incertezza ad incertezza, per dover poi concludere che pensare, agire e, dunque, vivere, è assolutamente inutile. Che esista o non esista una Realtà, per noi la sua conoscenza è impossibile, un vano sforzo cerebrale. Che altro ci si proporrebbe se non dissolversi in una sorta di Caos ? Dal relativismo estremo si arriva, per negazioni, al nichilismo, all’”inutilismo” di ogni ricerca, mentalità tipica del secolo XX, soprattutto dalla metà in poi, arrivando alle strane inconclusioni di un Popper che, figurandosi la scienza come serie di congetture che sono “scientifiche” in quanto confutabili (o anche confutate ?), finisce per arrivare ad un puro scetticismo, per cui non abbiamo più alcuna scienza, ed il rapporto con l’oggetto di studio si annulla tra chiacchiere e le solite formule insignificanti. Altro è dire che la scienza è una lenta e difficile conquista che, attraverso procedimenti confutatori (quasi esperimenti mentali) mette alla prova ipotesi e teorie, le quali, se reggono a tale prova, possono dirsi acquisite come “vere”, sia pur relativamente o provvisoriamente o definitivamente: perché, alla fin fine, se riteniamo non inutile il nostro cercare, è necessario supporre che sarà almeno qualche volta definitivo il nostro trovare, ovvero che ciò che otteniamo corrisponda ad un rapporto esatto tra la nostra idea del fatto e il fatto stesso, tra la nostra idea ed il fenomeno descritto, che non è una pura fantasia. Ora, tutto ciò ci è confermato dalla natura della Verità come conoscenza totale della realtà totale, mentre il Falso sarebbe non conoscenza totale della realtà totale = conoscenza totale dell’irrealtà totale. Ma l’irrealtà, non essendo, non è neppure conoscibile (non possiamo stabilire un rapporto mentale con ciò che non esiste). Dunque, la nostra conoscenza sarà totale su una realtà parziale o sarà parziale su una realtà totale, ma non potrà mai essere ignoranza assoluta delle cose e della realtà. Ciò posto, non potendo esistere un Falso assoluto, bensì solo un falso relativo e parziale, ogni diversa affermazione e concezione sulla realtà contribuirà sicuramente ad accrescere, di poco o di tanto, ciò qui non importa, la nostra conoscenza. Se la conoscenza assoluta, immediata, totale delle cose appartiene solo a Dio, la conquista lenta, mediata, continua, talvolta contrastata, della conoscenza appartiene certamente al pensiero umano, non nel singolo, ma nell’Umanità nel corso della sua esistenza planetaria .


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E torniamo allora, dopo questa parentesi gnoseologica, all’ontologia della materia. In quanto termini originari, materia, massa e quantità vanno considerati quali sinonimi , ovvero indicano un unico concetto per la medesima sostanza. Tuttavia, se per quantità, come per estensione, intendiamo una caratteristica distinta della materia stessa, allora vogliamo significare una qualità astratta, quasi il contenitore vuoto della materia, otteniamo il presupposto di una concezione matematica (geometrica o stereometrica) della materia, oppure se consideriamo la materia composta da enti (punti uniformi o uguali, indistinguibili tra loro) dislocati in successione, che aggiungiamo e togliamo dalla serie, allora la concezione si dirà aritmetica. Se l’astrazione della quantità dalla materia appare un metodo necessario per misurare la materia stessa, secondo il criterio protagoreo dell’ “uomo misura di tutte le cose”, o meglio della mente umana misuratrice di tutte le cose, la pretesa di fare di tale astratta quantità matematica la realtà vera delle cose, si cade nell’illusione pitagorica e neopitagorica, tipica delle concezioni sopra accennate e di molte altre. La differenza tra magia e scienza, in questa sede, consiste appunto in questo: la confusione tra qualità come fatto reale e la quantità, tra il significante ed il significato nel rapporto simbolico adottato per la conoscenza, la confusione tra misura e cosa misurata, tra la natura della cosa misurante con la natura della cosa misurata. Tutto ciò è pretesa magica; la scienza viceversa deve saper distinguere le due nature, tra astratto e concreto, tra la mente umana misuratrice e l’universo da essa misurato. La scienza è tale se riconosce i limiti della propria conoscenza, e sa che essi possono essere varcati solo gradualmente e con un metodo ben preciso .
Lo spazio ed il tempo non sono, come sosteneva Kant, forme pure a priori, ma piuttosto forme astratte a posteriori (lo spazio geometrico deriva come idea dalla materia in quanto assoluta uniformità di particelle semplici, chiamate punti, ma che può rielaborarsi in modo pluriforme, ovvero composizioni di punti; il tempo è null’altro che il movimento astratto in uno spazio astratto, movimento pensato senza un corpo mosso o moventesi). Tale a posteriori va concepito secondo l’assioma di Spencer: “L’a priori dell’individuo è l’a posteriori della specie”. Ciò che è congenito nell’uomo, anche come pensiero, è frutto di una elaborazione dell’intera sua specie, e perfino di specie cosiddette inferiori, da cui deriva (certamente, anche l’animale ha intuizione istintiva dello spazio e forse anche del tempo) .
Sulla conoscenza (in quanto capacità “attiva” di conoscere) della materia, ovvero la Materia come ente “pensante”, occorre rilevare che, se la Materia in sé è pura passività, non è sua caratteristica ontologica primaria la conoscenza, ma nel momento in cui Dio agisce sulla materia (ovvero dall’eterno), tale conoscenza in senso relativo diventa caratteristica secondaria o derivata (dal punto di vista logico umano, perché su quello fattuale, essendo co-eterni ed essendo eterna l’azione di Dio sul mondo, sul piano “cronologico”, è co-eterna anche l’azione della Materia su se stessa, quindi la “conoscenza” che essa ha di sé e di Dio) della Materia stessa. La Materia, dunque, conosce dall’eternità, ma tale conoscenza si esercita per gradi e per simboli (ovvero, i suoi corpi organizzati, pur essendo sempre materia, rappresentano altro da sé e si fanno mezzi di ulteriore conoscenza ed azione). In sostanza, nello Spirito la conoscenza è intuizione immediata, Auto- ed Eterocoscienza immediate, senza mezzi, Pensiero puro; nella Materia è processo simbolico tramite l’aggregazione ed organizzazione dei corpi in essa costituiti.
La cibernetica e la robotica, in quanto scienze, partono dal presupposto che l’uomo possa imitare se stesso, il proprio comportamento e, perfino, la propria razionalità, applicando determinate leggi. Se tali pretese fossero coerenti, dovrebbero riconoscere che la materia, anche quella assolutamente informe e disaggregata, ha, se non in origine, sicuramente acquisito una capacità di “conoscenza” proprio nel senso fisico e materiale di stabilire connessioni “simboliche” tra le varie parti della mteria stessa, ovvero che il suo trasformarsi non è che atto di conoscenza. Ma cibernetica e robotica, generalmente, si limitano all’idea che tali attività di simbolizzazione, attraverso la funzione meccanica, siano soprattutto opera della macchina costruita dall’uomo e dagli esseri detti “viventi” od organici, a partire dai virus. In realtà, la macchina, prodotto umano, non ha “conoscenza”, neppure vaga, né di sé né di ciò che ottiene: essa non fa che riprodurre automaticamente ciò che il suo inventore o costruttore le impone di fare. La macchina, da sé, non si trasforma mai, non si coordina con altre macchine, non si riproduce; può essere perfezionata, ma allora non è più la macchina di prima, bensì una nuova. Un elaboratore elettronico, che è la macchina più complessa finora costruita, deve ricevere dall’esterno e non dall’interno i propri aggiornamenti, finchè ci riesce, oppure deve essere costruito di bel nuovo come altro da quello che era prima.
La pretesa di costruire macchine “pensanti” è una bella ingenuità, visto che non sappiamo costruire neppure macchine che sappiano svolgere funzioni ben più semplici del corpo vivente, come il mangiare, digerire, defecare, orinare, o l’avere rapporti sessuali. Eppure, nessuno dubiterà che queste funzioni, essenzialmente biochimiche, sono molto più semplici che fare un semplice calcolo. Un elaboratore elettronico non fa che elaborare comandi, sia pure molto complessi, con relativa rapidità, ma non dà nulla di nuovo che in esso non vi sia stato inserito (il cosiddetto “programma”).
La Materia - viceversa - “conosce” l’altro da sé (cioè lo Spirito), ovvero stabilisce una relazione, tramite se stessa e la continua crescente complessità dei propri aggregati ed organizzati, che non modifica l’oggetto conosciuto (Dio non viene modificato dall’azione conoscitiva della materia che, conoscendo se stessa, conosce indirettamente Dio), ma modifica se stessa nelle proprie strutture, utilizzate come significanti di un significato altro da sé (il simbolo, infatti, è unione di significante e di significato che differiscono per contenuto: la parola è simbolo del concetto, a sua volta simbolo della cosa significata). Poiché, appunto, la conoscenza che la materia ha di sé dell’Altro da sé richiede un’attività auto-organizzatrice, la sua conoscenza è imperfetta, mediata, graduale nello spazio e nel tempo .
L’auto-organizzarsi della Materia presuppone un modificarsi nel suo interno delle particelle, dei rapporti tra le stesse, delle distanze e delle loro vicinanze. Tutto ciò è movimento in quanto spostamento reciproco, ed è mutamento in quanto cambiamento di qualità, nell’aggregazione o disorganizzazione dei corpi composti. Movimento e mutamento presuppongono quindi una certa libertà dei corpi. La teoria atomistica antica presupponeva che tale libertà dipendeva dal fatto che la materia solida era costituita da atomi indivisibili che si spostavano nello spazio vuoto (il contenitore geometrico). Una simile teoria è condivisa con molte varianti anche oggi, varianti di cui una è che non esista l’atomo indivisibile, ma eventualmente indiviso. Il problema vero è nell’idea del “Vuoto”: se per “Vuoto” intendiamo il Nulla, esso non potrebbe impedire in alcun modo l’aggregarsi dei corpi in una sola massa informe; non solo, ma questa massa tenderebbe insieme ad espandersi all’infinito perché nulla le impedirebbe di allargarsi (per fare un’analogia e per spiegare con un esempio: se noi versiamo un po’ di colore nell’acqua, questo colore tende ad diffondersi in tutto il liquido, perdendo di intensità, ma dando uniformità al liquido prima trasparente. Così per lo zucchero ed il sale che, sciogliendosi, dànno il loro sapore all’intero liquido, per quanto assai più diluito). Nessuno ha mai analizzato chimicamente il “Vuoto” pneumatico, sia artificiale, sia interplanetario; se potessimo farlo, probabilmente scopriremmo che si tratta di materia estremamente disaggregata, con particelle subatomiche, ma pure con una loro “solidità” ed “impenetrabilità”. Da qui il fatto che i corpi non si “diluiscano” nel vuoto riempiendolo interamente. Ora, questa materia disaggregata non è certamente il Nulla, ma è qualcosa che ha una sua capacità di resistenza e di inerzia che, considerata anche la sua infinità, consente una relativa “elasticità” rispetto ai corpi maggiormente consistenti, i quali così possono muoversi all’interno di questa sostanza elastica, la cui infinità - come necessariamente dobbiamo ritenerla - consente l’espansione e il movimento dei corpi aggregati ed organizzati. Non essendovi limiti in questa “materia pura”, i corpi solidi possono comunque spostarsi sebbene non in modo assoluto. In sostanza, l’infinità dell’Universo consente il continuo, ma lentissimo rivolgimento dei corpi, il loro equilibrio reciproco che solo in tempi lunghissimi si modifica .


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Avendo parlato del “tempo” (nel senso di Kronos), è doveroso ora specificare di che si tratta. Esso non è una realtà in sé, ma una necessaria nostra astrazione mentale a posteriori. Quando parliamo del “tempo” noi intendiamo la successione di qualcosa che, in sé, è indefinibile, se non come successione di fenomeni, di fatti fisici. Il moto celeste, sempre identico (o quasi), ci dà l’idea, fin dai primordi della vita organica, di un succedersi sempre identico che, quasi, esista di per sé. Ogni essere vivente ha il proprio “orologio” o “calendario” interni. Ma se analizziamo che cosa sia questo “tempo” kronos, notiamo che esso è solo una dimensione matematica, non come sostengono Einstein e seguaci, la “quarta” dimensione, ma una dimensione a sé, per nulla sommabile o sottraibile alle altre celebri tre (lunghezza, larghezza, profondità o altezza, mentre in realtà le dimensioni sono infinite, infinite essendo le rette sulle quali possiamo misurare le distanze: la differenza è che l’altezza si misura dal basso verso l’alto – rispetto a noi - la profondità dall’alto verso il basso - sempre rispetto a noi. Queste tre/quattro dimensioni sono valutate in un reciproco rapporto perpendicolare, ossia ad angoli di 90/180 gradi; ma potremmo misurare le distanze anche con angoli superiori o inferiori ai 90/180 gradi, ossia in senso obliquo, rispetto a noi. Potremmo anche valutarle su archi di circonferenza perfetta o archi ellittici, o addirittura su tratti curvilinei irregolari. Si tratta soltanto di questioni di comodità metodologica, e non di esattezza ontologica del calcolo). Il tempo presuppone la successione, uguale, di fenomeni uguali; ma, se togliessimo tali uniformità di fenomeni e di successione, perderemmo automaticamente ogni concezione di tempo. Posti in una prigione, senza luce, privati dell’orologio e di un calendario, con visite di carcerieri del tutto irregolari nell’arco della giornata o nell’arco di una settimana (poniamo che ci portino cibi secchi ed acqua a volte ogni giorno, altre volte ogni ora, altre volte ancora in un’occasione sola per settimana), nell’arco di pochi mesi non ci renderemmo neppure conto di esistere, probabilmente, e men che meno del tempo che passa. Come dunque definire il Tempo ? Null’altro che movimento astratto nello spazio astratto. Pensiamo ad un punto che si muova nello spazio geometrico, rispetto ad altri punti che consideriamo fissi in tale spazio. Ebbene, ora immaginiamo di togliere i punti, sia quello che si muove, sia quelli immobili, e di considerare solo il puro movimento. Ebbene, quello è il tempo, come dimensione matematica, un movimento puramente pensato, ma non visibile e neppure in sé percepibile, se non attraverso corpi che si muovono ed altri che stiano fermi. La natura gnoseologica del tempo e quella dello spazio geometrico sono praticamente diverse, senza alcun rapporto possibile diretto tra l’uno e l’altro. Infatti, per poter misurare qualcosa dobbiamo considerarla in quel momento assolutamente stabile, sia nel suo essere interno, sia nel suo rapporto con l’esterno, mentre il tempo presuppone movimento e trasformazione (anche se poi per misurare il tempo in uno spazio dato, abbiamo bisogno di fissare il movimento con un ritmo sempre uguale, che parte dal giro del Sole nei giorni equinoziali, ciascuno di 24 ore perfettamente divisibili in due, luce solare e notte). Cade così anche il concetto di velocità come rapporto matematico calcolabile tra spazio e tempo: se la velocità fosse il prodotto di una distanza per un dato tempo, la velocità assoluta sarebbe quella in cui un corpo, che si muova lungo una retta, sarebbe contemporaneamente su tutti i punti della retta, ossia sarebbe e non sarebbe su ciascun punto della retta. Il che è assurdo (tanto maggiore è la velocità, quanto più breve è il tempo necessario per superare una determinata distanza; quindi la velocità massima in assoluto è quella che, su una distanza infinita, annulla il tempo necessario a percorrerla, il che è già assurdo, per la definizione di infinità; ma se anche volessimo limitarci ad una distanza finita, segmentaria, la velocità massima sarebbe quella di un corpo che si muove, stando in ogni punto del percorso nel medesimo istante, ovvero senza tempo: dunque, sarebbe contemporaneamente su ciascun punto del segmento, e dunque vi sarebbe e non vi sarebbe. Ciò vìola il principio di non contraddizione, ma anche la stessa fisica). Ora, se la velocità deve presupporre rapporti relativi, la sua definizione non rientra nel concetto di tempo (se non per pura convenzionalità e comodità di calcolo), ma come rapporto tra moto e resistenza dell’ambiente al moto stesso: tanto minori sono gli ostacoli al moto, tanto maggiore è la velocità; tanto maggiori gli ostacoli, tanto minore è la velocità del moto. Ovviamente, calcolare la velocità su ostacoli indeterminati o indeterminabili (perché non conoscibili) sarebbe assai più complicato che valutarla relativamente ad un tempo convenzionale .
    
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