CONSIDERAZIONI SUL TRAPIANTO (2000)

Il testo è ricavato dal mio saggio “PROBLEMI ATTUALI E STORICI DELLA CLASSE POLITICA ITALIANA”, pubblicato settimanalmente sulla rubrica “L’ Indice” del periodico di annunci di Trieste e Gorizia “IL MERCATINO” e rimasto incompleto. La Cinquasettesima Parte fu scritta il 29 maggio 2000 e pubblicata pochi giorni dopo. Si voglia notare che allora ignoravo la tecnica adottata di considerare morte la linea piatta di un elettroencefalogramma, pur con il cuore ancora battente, cosa che si seppe pubblicamente tempo dopo. L’anno successivo vi fu la diatriba insorta con le osservazioni, in una trasmissione televisiva, di Adriano Celentano, che io sostenni, tanto da avere uno scambio epistolare col ministro della Sanità, allora il prof. Umberto Veronesi, che mi rispose tuttavia, dopo la caduta del ministero e le elezioni del 2001, in modo gentile, ma “rimproverandomi” per un mio “masochismo”.

[OMISSIS]……………………………

Un altro fatto che dimostra poi il grado di giullaresco infantilismo (ma con sfumature macabre) della partitocrazia, è stato quello grottesco di allegare al certificato elettorale una bustina bluastra del Ministero della Sanità (!!!), intitolata “Una scelta consapevole”: diciamo subito, con la massima franchezza che ci contraddistingue e come dimostreremo in modo inconfutabile in termini filosofici, che la scelta del Ministero e di chi ha facilitato la trasmissione di tale bustina, è stata tutt’altro che “consapevole” e di pessimo gusto, così sul piano morale, che su quello estetico. Che rapporto vi sia tra il votare nel referendum e la donazione dei propri organi, è un mistero di fronte al quale quello della SS. Trinità e del più rovinoso essere vivente apparso su questo misero pianeta, appaiono dilemmi di facile soluzione. Forse perché si temeva che, per andare a votare, gli elettori si sarebbero vicendevolmente uccisi nella fretta di raggiungere il “quorum” della Bonino, così da dover rapidamente utilizzare ora uno stomaco, ora un budello ?
Ci è assolutamente spiacevole dover usare toni sarcastici in merito a problemi di rilevanza umana enorme, problemi di natura non solo morale, ma anche scientifica ed epistemologica, stante che, per quanti trapianti possiamo farci, per quanti cambiamenti genetici possiamo inventare, tutti gli esseri viventi sono destinati alla morte, per cui, tanto più, ahimé, nei casi specifici che stanno a cuore ai trapiantatori di organi, non si tratta di “salvare una vita” (come vogliono propagandisticamente farci credere) ma di “prolungare una vita”, generalmente di una persona malata e debilitata, con gli organi di una persona giovane, deceduta per incidente. Già è grottesco che questa “scelta consapevole” sia fatta fare anche a chi consapevolmente sa che, per età e stato di salute, non può donare nulla a nessuno, anche minacciandolo velatamente in taluni casi (si è giunto pure a questo, da parte di un “trapiantatore” intervistato al telegiornale RAI) di non fargli avere organi nuovi al posto di quelli malandati, nel caso di una non “scelta” .
Ma ci chiediamo: è realmente possibile una scelta consapevole in casi similari ? Sappiamo che cosa significhi esattamente per il donatore e per il ricevente che cosa significhi in concreto una “donazione” o trapianto d’organi ? Si “salva” una vita: sì, ma fino a quando ? e poi si tratta di salvare una vita nella pienezza o di far sopravvivere qualcuno come uno zombie, riempito di pillole e frastornato da impedimenti ? Chi scrive non ha per sua fortuna avuto finora bisogno di trapianti da altri, ma ha subìto l’autotrapianto di vene a supporto di arterie coronarie, ed assicura i lettori che, malgrado le parti siano quelle proprie, l’adattamento è stato tutt’altro che facile ed immediato; figuriamoci nel caso di organi altrui. Qualcuno si sentirebbe a disagio ad usare biancheria d’altri sia pure lavata alla perfezione. Organismi caritatevoli ci invitano a regalare addirittura abiti nuovi, perché l’uso di cose già adoperate costituirebbe un imbarazzo umiliante per i mendicanti moderni: quanti accetterebbero di farsi installare un organo altrui, l’organo non di un vivo (ovviamente), ma di un cadavere nel quale, per quanto alla fase del tutto iniziale, siano già cominciati i processi di decomposizione ?
E poi che ne sappiamo realmente fino a quando si è vivi e quando si è morti ? Dove finisce la vita, dove comincia la morte ? Sono problemi di tale rilevanza morale, scientifica e filosofica, signori miei, che non bastano certo gli slogans pubblicitari, brutalmente volgari, del Ministero della “Sanità” (!!!) o delle associazioni di trapiantatori (seppure stracolme di buone intenzioni) a risolvere il problema. Non bastano neppure le bustine bluastre del Ministero a garantirci “scelte consapevoli”, né eventuali accelerazioni della morte di qualcuno, al fine di far sopravvivere qualche malato grave, bastano a garantirci una “reale consapevolezza” .
Chiedo infatti al signor ministro della Sanità, ai suoi sottosegretari e dirigenti ministeriali, nonché a tutti i sostenitori di trapianti, di rispondere ai seguenti interrogativi: dato che, quando si trapianta un organo, vi sono tre possibilità, o quest’organo è morto, o è vivo, oppure non sappiamo se sia vivo o morto e se si trovi in una fase intermedia, per la quale certe cellule e certi tessuti siano vivi e certi già morti. Nel primo caso, se l’organo è morto solo perché l’organismo era cerebralmente morto, come fa a “rivivere” una volta trapiantato ? Se si risponde che è vivo, occorre riconoscere che l’organismo dal quale è stato tolto non era del tutto morto, ma tale appariva soltanto con criteri esteriori. Se, infine, si ammette che l’organo non è morto, ma non è neppure del tutto vivo, ovvero che si trova in una fase intermedia per cui alcune cellule e alcuni tessuti sono morti, mentre altri sono ancora vivi (oppure, peggio ancora, se non si sa quando una cellula sia morta o sia viva), si deve inesorabilmente ammettere che non si sa nemmeno quando l’organo sia realmente vivo o morto, e così neppure l’organismo al quale apparteneva. E’ giocoforza ammettere che i mezzi esterni di verifica non ci dànno certezza della vita e della morte, e che l’unica certezza ottenuta si ha quando ormai gli organi sono espiantati, per cui l’individuo, prima forse vivo, non può in nessun caso riprendersi dalla morte .
E’ davanti al dolore, davanti al dramma umano, nel momento in cui ogni singolo uomo ha per unico conforto la propria ragione o la fede in Dio a dargli la consapevolezza per una simile decisione. Quanto a me personalmente, non vorrei proprio che a qualcuno, né vivo, né morto, si strappasse anche un brandello di carne per farmi agonizzare qualche mese o qualche anno in più. Nella nostra civiltà, c’è bisogno di saper affrontare col dovuto coraggio la morte, quando essa è inevitabile, perché è tutto da dimostrare che la vita fisica sia ad ogni costo qualcosa di tanto prezioso da costringere altri a fare a pezzi qualcuno per noi. Non sarebbe poi questa, in fondo, una rinnovata forma di antropofagia ? Quando l’uomo primitivo, pur giustificato dalla fame, motivava a se stesso l’ingerimento della carne del suo simile, il nemico ucciso in battaglia, con l’idea di assorbirne, la forza il coraggio, l’intelligenza del nemico ? Comunque, per dirla con S. Agostino, in nessun altro caso come in questo “in interiore hominis habitat veritas” (nell’intimo dell’uomo risiede la verità): ognuno decida liberamente, sia pure con dolore, nel momento supremo in cui l’esigenza della scelta si pone. Ogni qualvolta lo si faccia prima, lo si fa inconsapevolmente, insinceramente e disumanamente. Ma tanto più è disumano che un Ministero, facente parte di un Governo clerico-marxista, di atei e materialisti, ordini alla coscienza individuale di ciascuno di farlo anticipatamente. Questa è l’ulteriore, se non definitiva, prova della bassezza brutalmente materialistica, della nostra partitocrazia ! Ricordiamo a tutti, del resto, la nobilissima seconda formula kantiana dell’imperativo categorico: “Ciascuno consideri l’umanità, nella sua persona come negli altri, sempre come fine in sé, e mai come mezzo” .
Manlio Tummolo


U. P. S. C O.




All’ Onorevole Presidenza
del Parlamento Europeo
STRASBOURG (FRANCE)

All’ Onorevole Presidenza
della Corte Europea
per la Salvaguardia dei Diritti dell’ Uomo
STRASBOURG (FRANCE)
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Trieste, 18 luglio 2001



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OGGETTO : I Petizione, ai sensi dell’art. 21 del Trattato di Roma, 25 marzo 1957, Versione Consolidata, da parte dello scrivente Gruppo Promotore dell’UNIONE POLITICO-SOCIALE DEI CONTRIBUENTI, in riferimento alla legge italiana del 1° aprile 1999, n. 91, al Parlamento Europeo, ed Istanza presso la Corte Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo .

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Lo scrivente Gruppo Promotore dell’ UNIONE POLITICO-SOCIALE DEI CONTRIBUENTI, con sede a Trieste in Via Solferino n. 24 [*], ritenendo che la legge italiana del 1° aprile 1999, per la parte che prevede l’obbligatorietà di una dichiarazione di volontà (in merito alla donazione dei propri organi, nel caso di morte) scritta su una tessera speciale, inviata dal Ministero della Sanità, sia contraria all’art. 8, comma 1, e partticolarmente all’art. 9, comma 1, della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’ Uomo e delle Libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, in quanto e per quanto tale legge, così come viene applicata, impedisce apertamente o surrettiziamente alla persona prossima alla morte, di modificare la propria volontà, tanto nel caso di cessione dei propri organi, quanto nel caso di non cessione degli organi, non potendo essere assolutamente in grado, al momento del trapasso, di decidere in merito, mentre, d’altro lato, l’atto scritto impedirebbe comunque ai parenti stretti di decidere a loro volta in un senso o nell’altro .


PERTANTO, SI CHIEDE AGLI ORGANI CITATI IN INDIRIZZO

di intervenire presso il Parlamento Italiano, affinché modifichi la legge sopra citata, eliminando la disposizione relativa ad una decisione scritta preventiva, e di gran lunga precedente l’eventuale fatto luttuoso: infatti, per quanto doloroso possa risultare, è inammissibile che una tale decisione venga assunta “a freddo” molto tempo prima, decisione che risulterebbe stabilita a tavolino, ma non frutto di una reale meditazione di fronte alla morte. Sicuramente, una tale decisione, coinvolgendo non solo aspetti psicologici, bensì anche profonde concezioni morali e religiose, può subire nel tempo una contrapposta evoluzione, di cui tutti gli operatori del settore devono tener conto .




Distinti Ossequi
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Per il Gruppo Promotore
dell’ UNIONE POLITICO-SOCIALE DEI CONTRIBUENTI
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prof. Manlio Tummolo







NOTA : [*] Attualmente, Via Udine n. 10 - 33032 BERTIOLO (Udine)
n. telef. 0432 / 917985













Manlio Tummolo
A: <primapagina.rai.it>
Oggetto: paure degli Italiani: cause antiche e prossime
Data: giovedì 15 maggio 2008 12.15


ALLA CORTESE GIORNALISTA DE "IL MANIFESTO" :

So che Lei, come è consuetudine dei giornalisti ed intellettuali in generale poco propensi ad un confronto con gli altri senza comodi limiti di tempo
durante i quali l'obiettore riesce a dire solo ciò che gli si lascia dire), non mi risponderà: ciò tuttavia non mi esime dal farLe alcune obiezioni.
E' assai comodo confondere le paure innate (psico-somatiche, neurologiche ed ontologiche) dell'uomo, con le paure dovute ad una politica dissennata
che ha voluto confondere e far confondere l'Italia con l'America dell'800 ed inizi '900, senza tener assolutamente conto delle differenze di dimensioni
territoriali, di densità di popolazione, di assenza di risorse minimamente paragonabili a quelle di un vastissimo continente, e così via. Politica fon-
data sul più becero e volgare scopiazzamento di tutto quanto è americano, tanto da rendere incapace un illustre politico di inventarsi un proprio slogan
italiano, andando invece a copiarlo da un candidato americano. Ora, questa dissennata politica che scambia una terra di 300.000 kmq o poco più con un
continente che ne ha oltre 42 milioni (ed una densità demografica infima, soprattutto dopo che i civilissimi Europei ne avevano sterminato le popolazioni),
ha fatto sì che, dopo aver favorito una feroce politica per il decremento demografico (aver più di due figli era una vergogna, perché il pianeta sarebbe
- a dire di certa propaganda fine anni '60 ed anni '70 ! - scoppiato) impedendo in tutte le forme, aperte e subdole la costituzione di famiglie con un certo
numero di figli, finendo così per costituire lo Stato meno prolifico del mondo, si voglia sostituire una popolazione giovane mancante con l'importazione
di schiavi e semi-schiavi dall'estero, in perfetto accordo tra marxisti (sostenitori di un cosmopolitismo, in cui vi sarebbe un'unica classe dominante,
il proletariato felicemente guidato da un Partito Internazionale Comunista glorioso e vittorioso), cattolici (sostenitori di un universalismo cristiano,
in cui tutti i popoli ed uomini si predisporrebbero all'istituzione del Regno di Dio sulla Terra, abolendo le distinzioni nazionali laiche ed areligiose),
capitalisti (a cui ha sempre fatto comodo avere 100 lavoratori contro 10.000 disoccupati, sfruttando gli uni e gli altri), ed infine delinquenti d'alto bor-
do (favorevoli alla restaurazione della tratta di schiavi, su cui pesantemente lucrare), si è iniziata, crollata l'URSS nel modo pietoso a tutti noto, sen-
za che però i marxisti capissero il vuoto di quell'ideologia sedicente scientifica, un'importazione massiccia di schiavi da ogni continente, al fine di di-
struggere quel poco che dal 1861 al 1940 si era cercato di fare, per costituire uno Stato serio e rispettato all'estero .
Queste le cause recenti, ma le cause lontane vanno trovate nel modo compromissorio in cui lo Stato italiano è sorto, emarginando le forze realmente ri-
voluzionarie (in primis, il mazzinianesimo), ottenendo risultati modesti con il notevole aiuto di potenze straniere (Francia e Prussia, particolarmente),
con una politica di continuità profonda con la mentalità e la prassi politiche e le istituzioni pre-unitarie arrivando a "sdoganare" culture da corte me-
dioevale e rinascimentale (cortigiani, maggiordomi e buffoni, i cui costumi si sono proiettati fino a noi), esterofilia ed esteromania, fino al punto da
asservire il nuovo Stato a stranieri pur di averne un' alleanza, certo mai gratuita. Nel 1938/ 39, dopo aver seguito una politica estera abbastanza libera,
il fascismo ci regalò quel Patto d'Acciaio che fu l'atto concreto di cessazione della nostra indipendenza, certo non recuperata né con la caduta del fasci-
smo, né con la sconfitta germanica, ma semplicemente sostituita ed aggravata da una sudditanza incondizionata agli U.S.A., in cambio di un eventuale (e
poi rivelatosi solo teorico) aiuto contro la minaccia sovietica. Nel frattempo, il popolo, certo non molto colto già in partenza, è stato sistematicamen-
te rincretinito dal culto spasmodico degli spettacoli sportivi e pseudoartistici, tanto da scendere a livelli paurosi ed impressionanti: cara signora, gli
episodi che vediamo, violenze gratutite di gruppo o addirittura di massa, non sono che i prodromi terrificanti di quanto avverrà tra qualche anno, se non
ci sarà una drastica e rapida svolta: non lo si vuol capire, perché ci si lascia incantare dagli slogans , dalla propaganda, da contraddittorie statisti-
che, con le quali si cerca di convincere i soliti ingenui congeniti che viviamo nel migliore dei mondi e dei modi possibili, che esista una democrazia, che
siamo addirittura in una "terza repubblica" quando non è mai esistita neppure una prima, e così via; la carica di aggressività nel popolo italiano, donne,
uomini, fanciulli, ecc., sta crescendo a dismisura: per rendersene conto, basta guardare il comportamento delle persone nella normale e quotidiana vita,
sull'autobus e sulle strade, nei condomìni, in ogni altra sede: ma il regime plutocratico e mercuriocratico (ovvero retto da mercanti e ladri, di cui
Mercurio era il dio, secondo la mito-teologia greco-romana) copre di prosciutto e di spettacolini la verità, per cui il metodo dello struzzo è quello che
gazzettieri, intellettuali ed accademici lautamente pagati adottano in assoluto per tacitare l'opinione dell'uomo comune .
La paura dell'uomo normale, comune, "qualunque" di oggi non è puramente una paura psico-ontologica, è la consapevolezza, anche se non perfetta, dell'
evidente disfacimento di una civiltà e di una coscienza morale collettiva, che prepara inesorabilmente violenze, terrore e fiumi di sangue: non siamo
certo ancora alla fase dell'inevitabilità, ma vi siamo prossimi. Se le menti più influenti (non necessariamente, ahinoi !, le migliori) non vogliono o
non possono rendersene conto, tra 10 - 20 anni potremmo arrivare a selvagge guerre civili di tipo africano .
Distinti Saluti ,
prof. Manlio Tummolo




Alla Spettabile Redazione
di Radio 3 Mondo
RAI
Piazzale Willy De Luca
SAXA RUBRA (Roma)


OGGETTO : Gli U.S.A. come luogo mitico della libertà .



Bertiolo (UD), 5 giugno 2008


Ho seguito la Vostra trasmissione di oggi, nella sua prima parte, finché non vi è stata la solita pausa “musicale” (sempre dello stesso tipo, ahinoi !). Un tema comunque sempre molto interessante, riguardo alla lotta al e del terrorismo internazionale, trattato tuttavia con la mentalità tipica dei giornalisti, i quali, a differenza dei veri storici, vedono i fatti giorno per giorno, settimana per settimana, secondo i limiti cronologici del mezzo d’informazione su cui scrivono. C’è in molti la tendenza a meravigliarsi della metodologia violenta ed antiliberale adottata nei confronti di veri e supposti terroristi, e questa meraviglia è data soprattutto dall’idea mitologica che gli U.S.A. rappresentino una terra di libertà. Questo mito, connesso a quello della felicità, della ricchezza, della potenza, ottimamente espresso in molte poesie di Walt Withman, ha origini antichissime, quando l’uomo, seguendo il moto del sole, si indirizzava verso ovest, sempre cercando qualcosa che non poteva trovare, ma che identificava di volta in volta con Atlantide, con le Isole Fortunate, con l’Eldorado, per finire negli Stati Uniti d’America, un agglomerato di colonie che non ha saputo neppure darsi un nome proprio di Stato, ma si è identificata automaticamente con quello dell’ intero continente sul quale si trovava. Un sintomo significativo di scarsa consapevolezza interiore, logicamente espressa, facile dunque a trasformarsi in forme mitiche e mitosofiche (la mitologia, propriamente, ha aspetti di ricerca scientifica; per mitosofia, sulla linea di “teosofia” o “antroposofia” intendo la pretesa di conoscenza immediata, intuitiva rivelata o ispirata, di una credenza di natura simbolica, poetica, quasi inconscia), con degenerazioni assolutamente ovvie, che chiunque può constatare nella storia dell’unione nordamericana e nella lettura di autori, come Whitman e simili. Tale mito poi è stato in gran parte assorbito dagli Europei rimasti nel Vecchio Continente o andativi più tardi. Una vecchia canzone triestina, diffusa sotto l’Imperial-Regio Governo Austriaco, tanto decantato dagli imbecilli ignoranti come modello di efficienza e di benessere (altro mito tuttora permanente), diceva così :
“Magari col caro de Zimolo,
magari col caro de Zimolo,
in America voio andar…
Magari a cavalo de un bacolo,
magari a cavalo de un bacolo,
in America voio andar… ecc”
(la traduzione per i non Triestini: “magari col carro della Ditta Mortuaria Zimolo o magari a cavallo di uno scarafaggio, in America voglio andar…”). Dunque, l’America, particolarmente gli U.S.A, hanno rappresentato un ideale di condizione, in cui tutti facevano fortuna e ritornavano, se ritornavano, ricchi e felici, magari con qualche sacrificio. Questa idea era particolarmente diffusa tra i ceti popolari: in quelli più colti, grazie anche al fatto che a New York entrando nel porto si vede la grande statua della Libertà (donata dalla Francia, però, e non mi pare ne esistano altre all’interno degli Stati Uniti), gli U.S.A. venivano rappresentati, confondendo aspetti anarcoidi ed individualisti con la Democrazia e con la Libertà, come il paese della Libertà per definizione, e della democrazia, grazie anche al Tocqueville, che democratico non era e di democrazia capiva poco, tanto che fu il ministro di Luigi Napoleone Bonaparte, e che calunniò apertamente la Repubblica Romana del 1849 agendo per strangolarla nei suoi pochi mesi di vita. In effetti, invece, verso la fine del XIX secolo ed inizi XX, gli Stati Uniti vennero considerati da forze più realistiche come il maggior esemplare, con l’Inghilterra, dell’imperialismo, sia pure in forme meno aperte e smaccate: a questo proposito lo storico Fritz Fischer, nel suo “Assalto al potere mondiale” descrisse bene l’atteggiamento della Germania guglielmina che vedeva gli U.S.A. come un esempio da seguire. Un altro grande storico, Raimondo Luraghi, ci ha spiegato nella sua “Storia della Guerra Civile Americana” quanto poco democratico fosse il metodo degli unionisti per soffocare la resistenza del sud (se uno storico non piace, basti rileggere “Via col Vento”). Hitler stesso, poi, prese a modello gli U.S.A, particolarmente la poco democratica politica del big stick nei confronti dell’America Latina (e perfino il “democraticissimo” Wilson,l’ideatore della Società delle Nazioni ecc., assunse ben altri atteggiamenti nei confronti del Messico), per la sua azione in Europa e nel mondo.
Si chiede ai Turchi di riconoscere lo sterminio degli Armeni, ma tutti si guardano bene dall’esigere la richiesta di scuse degli U.S.A. nei confronti delle popolazioni amerindie dei loro territori, notoriamente sterminate e poi rinchiuse in quelle riserve che furono modello per gli Inglesi contro i Boeri e dei Tedeschi nei confronti degli Ebrei, ecc. . A che meravigliarsi, dunque, di Guantanamo ? tutti i governi degli Stati Uniti, a partire almeno dalla Guerra contro il Messico del 1844, hanno adottato sistemi terroristici di estrema spietatezza, quando un qualunque popolo non si lasciava incantare dalle sue caramelle, dai suoi chewing-gums, dalla sua Coca Cola, dal suo formaggio giallo in scatola, dagli scarti della sua tecnologia; di tanto in tanto, come i soldati spagnoli del Manzoni, anche qui in Italia dànno qualche lezione di modestia, come per il Cernìs ed altro, qualora mai avessimo intenzione di svegliarci o di liberarci dalla loro comodamente oppressiva presenza (*) .
Gli U.S.A non sono propriamente governati da una democrazia, bensì da un’oligarchia di alto-borghesi plutocrati e schiavisti (tuttora…) che decide tutto sulle spalle di un popolo ormai quasi completamente immerso nell’unica attività di riempirsi lo stomaco e di soddisfare le esigenze biologiche nella maniera più comoda; ma guai ai popoli che confondono la Libertà con la comodità: la prima è condizione di responsabilità, come ci hanno insegnato Kant, Fichte e Mazzini, strumenti per la realizzazione cosciente del Dovere; la seconda, è solo il mezzo con il quale le tirannie, i poteri assoluti, i poteri antipopolari fondati sulla mistificazione tengono buona una plebaglia nell’illusione che non si ribelli mai, si riempia lo stomaco, si vuoti il cervello ed annulli la propria coscienza morale .

Distinti Saluti ,
prof. Manlio Tummolo
Dr. in Pedagogia ed in Giurisprudenza


NOTA (*) : Va rivista anche la fiaba, così largamente diffusa, che gli U.S.A. tra il 1943 ed il 1945 siano venuti a liberarci :
1) innanzitutto, l’iniziativa della guerra agli U.S.A. fu del Giappone, della Germania e dell’Italia, anche se - a dire il vero - il secondo Roosevelt aveva fatto tutto il possibile perché ciò avvenisse ;
2) evitare che il predominio tedesco in Europa e giapponese in Asia potesse poi estendersi al continente americano stesso (particolarmente nell’America Latina, dove i rischi di un’influenza italiana ed in parte tedesca erano molto forti) :
3) sostituire al predominio tedesco in Europa il predominio americano, fin dove ciò si potesse fare .

Se fossero venuti sul serio a “liberarci”, perché non tentarono almeno di “liberare” anche i popoli del centro-Europa, bloccando l’espansione sovietica ?





ORATORIA E RETORICA

IN MARCO TULLIO CICERONE


( Quinto saggio per una Storia delle teorie estetiche, per la Rivista on-line "Capriccio di Strauss)

Pozzecco di Bertiolo, agosto 2008

Marco Tullio Cicerone è una figura centrale in ogni storia delle teorie estetiche, perché segna il passaggio dalle teorie elleniche ed ellenistiche, finora esaminate, a quelle più propriamente romane, che non hanno caratteristiche di particolare originalità, ma assorbono e adattano una mentalità più rigorosamente teorica, come quella ellenica, alle finalità pratiche della mentalità tipicamente romana. Già del resto i Greci avevano fatto dell’oratoria e dell’eloquenza strumenti di natura politica; i Romani, e Cicerone in particolare, accentuano la funzionalità concreta nelle attività quotidiane politico-organizzative. Cicerone, poi, ha un’importanza prevalente nella storia dell’estetica oratoria e nella retorica, in quanto è una figura pressoché completa: non è soltanto un grande politico, un abilissimo avvocato, ma è anche un notevole filosofo, scrisse pure un poemetto elogiativo su certe vittorie da lui ottenute in oriente. Tutte quelle che oggi consideriamo scienze umane furono per lui oggetto di studio e, sebbene senza caratteri di spiccata originalità (non è certo all’altezza dei grandi filosofi greci), tuttavia ha una sua ricca ed interessante personalità, che riordina e rielabora le concezioni altrui rendendole proprie o, comunque, con proprie caratteristiche. Si potrebbero, volendo, anche confrontare le sue teorie retoriche e di estetica del discorso oratorio con i suoi discorsi, così come trascritti (soprattutto le celebri “Catilinarie” e le “Filippiche” contro Antonio), per verificare quanto quelle teorie fossero state applicate di fatto. Ma, sinceramente, non mi sembra necessario, nell’economia di questi saggi, in quanto richiederebbe uno spazio notevole, con confronti puntuali, ed il tutto risulterebbe di dubbia utilità, in quanto i testi che noi abbiamo a disposizione (a parte il fatto che noi lavoriamo su traduzioni, per non complicare il discorso e per renderlo fruibile a tutti) non sono i discorsi effettivamente pronunciati, ma quelli trascritti più tardi sulla base probabile di appunti, anche in forme stenografiche, per noi completamente perduti. E’ celebre, ad esempio, il fatto che il discorso “Pro Milone” risultava pronunciato in maniera ben più modesta a causa della presenza fisica dei sostenitori di Clodio, ucciso in uno scontro di bande da Milone, che Cicerone difendeva. Il grande oratore non era uomo di estremo coraggio, sebbene seppe morire poi con dignità, e non pronunciò affatto quelle energiche frasi che, viceversa, si leggono nel testo scritto, a noi tramandato e che, secondo lo stesso Milone, sarebbero riuscite a salvarlo. Le stesse “Catilinarie”, pur pronunciate in ben altro stato d’animo, con la sicurezza del largo sostegno del Senato e l’appoggio delle forze militari regolari, furono rielaborate successivamente alla repressione del moto catilinario. Sarebbe così errato ritenere che i discorsi a noi tramandati siano pressoché uguali a quelli effettivamente pronunciati, e che possano così consentirci di confrontare le sue teorie con la pratica oratoria .
I testi sui quali lavoro sono due: “L’Oratore” (1) e “La Retorica a Gaio Erennio” (2), il cui testo non è attribuibile con certezza a Cicerone, ma è una di quelle opere la cui stesura è incerta relativamente all’autore, ma viene ascritta a Cicerone per tradizione. Beninteso, la mia analisi non ha pretese di completezza né quantitativa, né qualitativa: è soltanto un’occasione per proseguire con una certa logica, che coincide spesso con la cronologia, l’approfondimento del pensiero estetico, qui, come anche in molti autori ellenici, rivolto essenzialmente all’arte oratoria e del bello scrivere, piuttosto che allo stile narrativo (i Romani conoscono i poemi, le poesie, le tragedie e le commedie, ma ignorano, almeno fino a Petronio, il romanzo o il lungo racconto, per cui sembrano ignorare ogni dottrina sullo stile nel settore narrativo, seguono le direttive aristoteliche, senza grandi divergenze: tutt’al più, nel caso delle commedie, appare una certa tendenza pratica alla tradizione italica etrusca - di cui conosciamo cose molto indirette e parziali - ed osca, ovvero campano-sannita), di cui, per quanto mi risulta, Cicerone si occupò solo parzialmente .
Il “De Oratore” si presenta in forma di dialogo, in 3 Libri, a carattere autobiografico, dove intervengono, quali interlocutori, il fratello Quinto e Lucio Licinio Crasso, uno dei principali oratori dell’epoca, padre o, almeno, parente del celebre personaggio che, bramoso d’oro e di ricchezze, catturato dai Parti nella battaglia di Carre, fu spietatamente ucciso dagli stessi con oro fuso colatogli in bocca, per ordine della regina Tamiri, proprio per punirlo di aver organizzato quella spedizione, al fine di impadronirsi delle ricchezze di quel popolo.
Entriamo, dunque, nell’argomento: nel Libro I, dopo una premessa di carattere personale, Cicerone confronta l’eloquenza con altre discipline, chiedendosi del perché, numericamente, i cultori di tali altre discipline (ad esempio, l’arte militare) prevalgano sugli oratori. Nega ancora che la storia romana precedente abbia segnalato grandi oratori, pur essendovi molti uomini ben capaci di governare. E’ anche interessante notare come egli, pur potendosi considerare un grande patriota, negava che Roma potesse vantarsi di aver avuto grandi scrittori, filosofi, poeti :
“… i meno numerosi sono i poeti di grande valore. E anche in questo piccolo numero…, mettendo a confronto con cura il numero dei poeti e degli oratori nostri e greci, si può nondimeno constatare che il numero dei valenti poeti è sempre maggiore di quello dei valenti oratori…” (3) .
Cicerone sembra quasi stupirsi di tale fatto, visto che l’eloquenza è una qualità o arte da utilizzarsi quasi ogni giorno, ma ciò è dovuto al tipo di espressione che si discosta dal linguaggio comune. Cicerone, tuttavia, ritiene che, dopo l’espansione della repubblica nell’intero Mediterraneo, lo studio dell’eloquenza cominciò ad appassionare i giovani che mirassero alla vita politica, al successo, alla “gloria”. Si cominciò così a seguire il modello greco (4). Si ripete, insomma, quanto già avvenuto in Grecia, dove l’oratoria diventa non semplice strumento di comunicazione politica, ma addirittura una garanzia di successo, in quanto solo chi avesse un’eloquenza brillante poteva sperare di ottenere risultati migliori alle elezioni e quindi ascendere il cursus honorum .
Nel capitolo successivo, egli si occupa dei requisiti necessari per essere un buon oratore. E’ celebre il detto di Catone, in riferimento all’oratore in senso politico : “Vir bonus dicendi peritus”, ovvero “un uomo onesto esperto nell’arte del dire” (5); ben più articolata è la valutazione di Marco Tullio :
“… Si deve infatti possedere una vasta cultura, senza la quale l’oratoria è un vaniloquio futile e ridicolo; e lo stesso stile deve venire ben plasmato non solo con la scelta ma anche con la disposizione delle parole; si devono poi conoscere a fondo tutti i sentimenti e le passioni di cui la natura ha dotato il genere umano; perché tutta la potenza e tutta l’arte dell’eloquenza devono essere impiegate a placare ed eccitare l’animo degli ascoltatori. Bisogna inoltre che nel discorso vi sia una certa grazia ed arguzia, e poi una cultura degna di un uomo bennato [il neretto è mio: proprio la cultura è una delle qualità che più fanno difetto nei politici d’oggi], prontezza e concisione sia nel replicare sia nell’attaccare, non disgiunte da fine garbo ed eleganza. E’ inoltre necessario conoscere bene la storia del passato… Né dev’essere trascurata la conoscenza delle leggi e del diritto civile…, [il] che deve essere sorvegliato nei movimenti, nella mimica e nella giusta e varia modulazione della voce…” (6) .
Ora, il filosofo romano non intende affatto dire, come si confermerà, che l’oratore debba assumere pose preventivamente studiate, ma possedere l’intuizione della giusta valutazione del momento, del pubblico presente, della situazione circostante; la sua non è una recita improvvisata, ma l’espressione sentita e viva nella compartecipazione con i suoi ascoltatori (fossero anche rivali o nemici). Come si è detto, nei saggi precedenti, l’oratoria deve essere insieme spontanea, sincera per quanto possibile, ma non improvvisata, non abbandonata al caso. La presenza dello studio e delle conoscenze dell’oratore non deve intervenire meccanicamente, ma in modo fluente, vivo e naturale, in modo che il pubblico non lo senta artificioso, ma come se fosse creato del tutto di getto in quel momento. L’ultima, ma non per importanza secondo Cicerone, è la capacità mnemonica: infatti, allora soprattutto, era necessario, proprio per dare il senso dell’immediatezza delle cose dette, avere prontezza di memoria: oggi, lo è meno, anche per l’abitudine di leggere discorsi scritti, ma questo è uno dei nodi dell’oratoria se il discorso non è una conferenza e non presenta dati di particolare complessità, non dovrebbe mai essere scritto, ma improvvisato, con al massimo qualche appunto scritto da utilizzare come traccia e per evitare la dispersività :
“… Per questo non dobbiamo più chiederci stupiti il motivo per il quale sono così poco numerosi i buoni oratori, dal momento che l’eloquenza è la sintesi di tutte quelle discipline, ciascuna delle quali esige una grandissima fatica, ma dobbiamo esortare i nostri figli e tutti gli altri di cui ci stiano a cuore la fama e il prestigio, a rendersi consapevoli dell’importanza dell’eloquenza…
A mio parere, nessuno può essere un oratore compiuto se non ha acquisito la conoscenza degli argomenti e delle discipline più importanti. Infatti il discorso deve sbocciare e sgorgare abbondante dal sapere; se non è sotteso un contenuto ben conosciuto e padroneggiato dall’oratore, esso si riduce ad un’esposizione per così dire vuota e puerile…” (7) .
Dunque, l’oratore, o è uomo colto e parla di cose ben conosciute, oppure è un ciarlatano, un chiacchierone. Molto spesso si sentono complimentare personaggi celebri, attribuendo ad essi doti “comunicative”, confondendo ancora l’arte oratoria che si avvale della scienza e della conoscenza, con l’abitudine imbonitrice del venditore ambulante che esalta le merci in vendita .
Cicerone prosegue poi con il riferimento alla teoria ellenica dell’oratoria ed alle sue distinzioni: riconosce così l’inutilità di seguire una strada già battuta e a tutti nota, e preferisce esaminare invece i politici romani quali modelli di oratoria, almeno quelli del secolo a lui corrente, prendendo occasione da un dialogo (probabilmente in parte realmente accaduto) a Tuscolo, patria dello stesso Cicerone, tra Lucio Crasso ed altri personaggi. Ora, per evidenti ragioni in quanto non riguardano il tema estetico ma quello politico o sociale, tralascio le considerazioni sull’utilità dell’oratoria come strumento di propaganda, anche se Crasso asserisce pure importante l’eleganza della conversazione in ambito familiare o tra amici, Scevola, il suo interlocutore, pur apprezzando l’eloquenza respinge l’idea che essa possa essere l’unica qualità utile in politica e nei rapporti sociali, e cita personaggi antichi da Romolo in poi quali fondatori di uno Stato, senza bisogno di essere grandi oratori. Ricorda anche, quali abili oratori, i due fratelli Gracchi, primi forse in Roma ad usare questa arte di persuasione nell’attività politica. Crasso, quindi, riconosce che l’oratoria è importante per il politico, ma anche per il filosofo e lo scienziato, ricordando fra gli altri Platone, il quale, pur schernendo l’oratoria (aggiungerei io, di natura propagandistica, politica), era di per sé un grande oratore :
“ Che c’è, infatti, di tanto insensato quanto un vuoto risuonare di parole, siano pur sceltissime ed elegantissime, quando dietro ad esse non ci siano nessun pensiero e nessuna competenza ?….” (8) .
Crasso ancora sottolinea che, anche nel settore più tecnico dell’oratoria, come quello giudiziario, occorre essere capaci di incitare all’ira, all’odio, allo sdegno, o - inversamente – alla calma, alla pacificazione: ebbene, solo con un’ottima conoscenza dell’animo umano ciò sarà possibile (ed, infatti, quanti pretesi consiglieri di pace, con quel famoso e comune “càlmati, càlmati”, finiscono per eccitare ancor di più la rabbia dell’adirato: solo assumendo, almeno apparentemente, una rabbia ancora maggiore, chi vuol calmare, riesce nello scopo, perché la persona arrabbiata si rende conto dell’esagerazione e ne sorride; un altro pessimo sistema è quello di dare ragione ad uno dei due contendenti; ciò finisce per irritare l’altro: dunque, in un tal caso, occorre cercare, per calmarli, di dare ragione ad ambedue, mettendo in evidenza gli aspetti positivi delle pretese di uno e dell’altro).
Più avanti, c’è un capitolo sul paragone tra l’oratore ed il poeta, che viene considerato come “il parente stretto dell’oratore”(9) : la cosa non appaia stramba perché tanto il poeta, come ogni letterato, deve esercitare opera di convinzione, ma più come seduzione, che non quale convincimento razionale o semi-razionale. Deve saper trasmettere sentimenti, con la differenza che l’oratore opera su fatti reali che stanno accadendo, il poeta perlopiù su cose inventate o trascorse, ma modificate dalla sua fantasia. Per Crasso, in sostanza, il vero oratore, come poi ulteriormente specificherà l’oratore “ideale”, deve essere cultore di tutte le arti liberali, utilizzandole non in modo saccente o dottorale, bensì con spontaneità, quasi per “ispirazione”. Scevola, viceversa, nega che gli oratori del tempo possedessero tali qualità e cita lo stesso Crasso come un esempio incompleto di tale oratore. Così Crasso allora risponde :
“… io non ho parlato delle mie capacità, ma di quelle dell’oratore ideale: infatti, cosa ho imparato e cosa ho potuto conoscere io… se in me cui, a tuo parere, non manca completamente l’ingegno, ma certamente mancarono preparazione, tempo da dedicare allo studio e, per Ercole, anche la passione ardente di imparare, ti sembra ci sia tanta bravura, di che livello pensi sarà l’oratore in cui si fonderanno con un ingegno magari maggiore del mio le conoscenze che io non ho acquisito ?” (10) .
Antonio, un altro interlocutore (si tratta sempre di personaggi storicamente esistiti, ma a cui non necessariamente vengono attribuite tesi effettivamente sostenute dagli stessi), sostiene che l’ideale dell’oratore come uomo coltissimo è fuori della realtà, e non sarebbe praticabile una simile formazione. Quasi con un gioco di specchi contrapposti, Antonio ricorda un dibattito fra studiosi greci, che più o meno ripercorre la questione se l’oratoria abbia natura pratica o natura scientifica, con ciò affrontando il tema che, alla fine, rimane pure lo stesso, della distinzione fra “disertus” (facondo, chiacchierone, imbonitore, ecc.) ed “eloquens” (elegante, raffinato nel parlare, colto, ecc.). Riprende Crasso, sollecitato da altri personaggi, che gli chiedono se esista un’arte dell’eloquenza; egli inizialmente si schermisce, poi nega che esista una specifica arte dell’eloquenza, che si acquisisce non tanto con lo studio teorico, quanto con la pratica:
“… che c’è di più sconveniente infatti del parlare del parlare, dal momento che il fatto stesso di parlare è sempre fuori luogo se non è motivato dalla necessità ?” (11).
Dunque, si parla per uno scopo concreto, non per parlare delle stesse regole del discorso (naturalmente, l’affermazione non va vista in una prospettiva didattica, dove necessariamente si insegnano le regole del discorso). Ed ecco un punto fondamentale: sono le doti naturali, in primo luogo, a fare dell’oratore ciò che è. Come si nasce con attitudini di un certo tipo, così si nasce o non si nasce oratore :
“ Ecco, dunque, come la penso – continuò Crasso - per prima cosa sono una disposizione naturale e l’ingegno che dànno il maggior contributo all’eloquenza, a codesti scrittori di retorica di cui ha parlato poco fa Antonio, non mancarono né il metodo né le regole dell’oratoria, bensì le qualità naturali; cuore e intelligenza devono infatti avere prontezza e agilità, da cui derivino acume nell’invenzione degli argomenti, ricchezza nello svilupparli e nell’ornarli, fedeltà e tenacia nel ricordarli. Se qualcuno pensa che tutto questo si possa ottenere con l’arte (il che è sbagliato…), cosa dire di quelle doti che senza dubbio sono congenite, vale a dire la lingua sciolta, il timbro della voce, i buoni polmoni, la vigoria fisica, la conformazione armoniosa del corpo e i bei lineamenti del volto…” (12).
Probabilmente, qui Crasso si lascia prendere la mano; d’accordo sui primi quattro punti (discutibile tuttavia la vigoria fisica, però è certo che chi non sta bene di salute, non ha certo voglia di far discorsi pubblici), ma il bel corpo ed il bel viso possiamo escluderli dalle qualità dell’oratore (chi mai possiede tante qualità riunite ?), L’affermazione va presa come paradosso, tuttavia non eccessivo: per l’oratore, anche il fascino, la piacevolezza complessiva conta. Nella storia dell’antica Ellade, è celebre l’episodio di una delle guerre tra Sparta e Messene: avendo chiesto gli Spartani aiuto agli Ateniesi, questi mandarono loro un poeta gobbo e storpio, il celebre Tirteo. Il dono poteva sembrare una derisione, ma Tirteo con la sua poesia infiammò così tanto gli Spartani in battaglia, da far loro ottenere una celebre vittoria. Il significato dell’episodio, probabilmente in parte esagerato, significa però che la bellezza della parola esula dalla bellezza del parlatore, mentre tuttavia non è del tutto irrelata alla bellezza della voce. Un oratore, per quanto bellissimo, elegante, facondo, che avesse una voce stridula o troppo bassa, o rauca, non trasmetterebbe agli ascoltatori la necessaria passione. Per Crasso, in sostanza l’oratore è un atleta della parola, come furono poi chiamati i celebri oratori francesi durante la Rivoluzione (detti, un po’ ironicamente, anche “tenori”).
Il fatto della voce, che sia alta, ma armoniosa, forte, chiaramente udibile, mai stridula, dote di natura che si può perfezionare (come, del resto, avviene nel canto che è ben più complesso), ma che c’è alla base o non c’è (chi ha voce bassa, rauca o stridula, può curarla sicuramente, ma mai tanto da apparire piacevole, solo meno spiacevole). Un aiuto, che nei tempi antichi non esisteva e che in parte veniva dato da una buona acustica in ambienti chiusi, ma pure aperti, se la disposizione degli edifici era tale da facilitare la diffusione del suono senza disperderlo, oggi è dato dal microfono, dall’altoparlante, da sussidi tecnici (in radio e televisione) che modulano la voce artificialmente, ma. per quanto si faccia, una pessima voce si tradirà comunque (ascoltando certi orribili dibattiti poi, oggi di moda, in cui tutti urlano, sovrapponendosi l’un l’altro e rendendosi reciprocamente incomprensibili, si verifica che, se la voce giusta, ben modulata, non c’è, tutte le soluzioni tecniche non servono a nulla). L’oratore è un po’ attore e un po’ cantante: nel suo discorso egli recita la propria parte, esprime se stesso, comunica le proprie aspirazioni ed i propri sentimenti, ma per essere piacevolmente ascoltato, egli deve pronunciare le cose appunto con un’arte data da attitudini spontanee, congenite, raffinate dall’esperienza e dallo studio .
Crasso, una volta fissate le doti dell’oratore ideale in generale, prosegue poi con il descrivere le doti dell’oratore politico, il quale non deve limitarsi a ricevere applausi e a suscitare entusiasmi, ma deve ottenere voti e sostegno concreto :
“… non ci sono né diverbi né controversie che costringano a tollerare in teatro i cattivi attori come nel foro gli oratori incapaci. L’oratore deve procurare con cura non solo di accontentare coloro nei confronti dei quali ha precisi doveri, ma di suscitare ammirazione proprio in coloro che possono giudicare disinteressatamente… anche coloro che parlano molto bene e sono in grado di farlo con grande facilità e ricchezza espressiva, tuttavia se non provano un senso di paura quando si accingono a parlare e se non provano forte emozione nell’iniziare il discorso, mi dànno l’impressione di sfrontatezza… più un oratore è bravo… e più teme le insidie del parlare, l’esito incerto della sua orazione e le attese del pubblico…” (13) .
Qui Crasso-Cicerone dimostra la sua profondità psicologica, basata su una lunga esperienza: il grande oratore, essendo animato da una viva passione in modo autocritico, non può restare indifferente né a ciò che dice, né al modo in cui lo dice, ma ancor meno di fronte ai possibili effetti rispetto alle reazioni del pubblico, che possono essere più o meno favorevoli o negative. Descrivendo se stesso, Crasso riconosce di manifestare il suo “timore” anche fisicamente, col pallore del viso ed un certo tremito, che tuttavia l’esperienza pratica sa tenere sotto controllo, ed entro certi limiti mascherare. Pur tuttavia, il pubblico deve sentire l’emozione dell’oratore, altrimenti essa non potrebbe trasmettersi al pubblico, ma tale emozione deve apparire per le cose da dire, piuttosto che per il timore di parlare (eventuali oppositori ne approfitterebbero per disturbare l’oratore onde intimidirlo ancora di più, soprattutto in sede politica).
Antonio conferma quanto osservato da Crasso con ulteriori osservazioni :
“… noi siamo esposti a un giudizio ancora più severo quando parliamo: … siamo sotto esame; e, mentre di un attore che ha sbagliato un gesto, non si pensa subito che non sappia gestire, al contrario l’oratore nel cui discorso è stato rilevato un errore, incorre in una fama, se non eterna sicuramente ostinata, di ottusità…” (14) .
Stabilite le qualità naturali necessarie all’oratore, Cicerone, per bocca di Crasso, espone poi la tecnica della retorica che, essendo già esaminata in altri autori senza differenze significative, ritengo utile omettere, onde evitare noiose ripetizioni anche perché poco utili all’aspetto estetico, e non meccanicamente tecnico, del tema che tratto. L’unico aspetto che può avere un certo interesse concerne l’esercitazione, la quale consente di aumentare la sicurezza e di rafforzare le doti naturali, soprattutto la modulazione della voce, l’atteggiamento, e così via, al fine di risultare più convincente (come ho già osservato nelle precedenti occasioni, non è tanto la possibilità di “persuadere”, quanto quella di mostrare in modo più efficace la propria “persuasione”; una retorica moderna non ha pretese di conversione degli altri, quanto di mostrare agli altri che si è effettivamente convinti di ciò che si dice, di ciò che si sostiene non come mero “slogan”, ma come prodotto di un ragionamento).
Il dialogo continua, con interventi vari, ma, sempre dal nostro punto di vista, è abbastanza ripetitivo e, pertanto, poco apprezzabile. Nel Libro II, Cicerone interviene direttamente rivolgendosi al fratello Quinto, con un commento che potrebbe apparire di scarso apprezzamento nei confronti dei personaggi storici che egli fa discutere, considerandoli non particolarmente colti. Tuttavia, non nega che le modalità della conversazione affrontano le tematiche dell’arte oratoria con una certa completezza. Riprende quindi il discorso, mettendolo in bocca ai personaggi, ma non vi è nulla di particolarmente nuovo. Vi ribadisce la necessità del coinvolgimento emotivo dell’uditorio, puntando così non tanto sulle sue capacità razionali, quanto sui sentimenti degli uditori. Ora, tale affermazione ha sicuramente una sua importanza: l’oratore, infatti, parlando in un tempo necessariamente limitato, né facendo una conferenza su argomenti specifici e scientifici, è costretto, volente o nolente, a puntare più sulle reazioni emotive degli ascoltatori, che non sulle loro capacità razionali, sia in sede politica, sia in sede giudiziaria. Gli stessi giudici - dice Cicerone - devono essere coinvolti dall’oratore, come avvocato di parte. In effetti, il giudice, ieri come oggi, giudica non tanto in base a coinvolgimenti psicologici, emotivi, inconsci, quanto ad un opportuno calcolo delle forze, sulla base del quale interpreta ed applica la legge (o la norma, più in generale), Se bastassero buone doti oratorie, avrebbe ragione il Manzoni nel suo celebre aneddoto sul giudice che dà ragione prima all’uno, poi all’altro, quindi al figlioletto che, voce della coscienza logica, gli esclude che possano aver ragione ambedue. E’ difficile pensare che giudici, generalmente ben smaliziati, si lascino indurre nelle loro decisioni da ragionamenti fini o da esclamazioni commoventi. Pensiamo ad esempio all’”Apologia di Socrate”: il testo, scritto da Platone sulla linea del discorso originale di Socrate stesso, non è privo di nessuna delle doti oratorie, né razionali, né emotive, né di ironia (e quindi di piacevolezza estetica), eppure la cicuta non gliela tolse nessuno: il fatto che egli, in quel momento, rappresentava la parte debole, quindi più facile da colpire, era un motivo più che sufficiente per mandarlo a morte. Se ciò vale per il primo processo documentato della storia (per quel che so), vale per tutti i successivi processi. Errano dunque, i teorici dell’oratoria che ritengono importante, nel giudizio, l’abilità eloquente, la capacità dimostrativa, l’acutezza argomentativa. Eppure Cicerone, che fu a suo tempo avvocato, accusatore e giudice, così fa dire ai suoi personaggi (nel caso specifico Antonio) :
“ Strettamente connesso a questo tipo di eloquenza ce n’è uno diverso, che, in tutt’altro modo, scuote l’animo dei giudici e lo spinge all’odio o all’amore [addirittura !], li rende favorevoli alla condanna o all’assoluzione, li spinge al timore o alla speranza, alla simpatia o all’avversione… dal punto di vista dell’oratore è auspicabile che i giudici già di per se stessi nutrano nei confronti della causa sentimenti favorevoli ai suoi interessi [la visione, espressa da Cicerone, è l’esatto contrario del modello che si spaccia nelle aule di giurisprudenza e nelle opere teoriche, ma è di gran lunga più realistico, anche oggi, malgrado i due millenni trascorsi]… anch’io, quando mi appresto ad agire sull’animo dei giudici in una causa molto importante e incerta, concentro ogni mio pensiero nell’accurato studio di fiutare, con quanto più sagacia posso, i loro sentimenti, i loro pensieri, le loro aspettative… Nel caso invece che il giudice sia spassionato e neutrale, c’è più da fare: bisogna dar vita a ogni emozione con il discorso, senza l’aiuto della propensione naturale del giudice [il neretto è mio, per sottolineare il concetto di giudice comunque manovrabile, anche se inizialmente onesto ed imparziale]…” (15) .
Importante è, però, che si aggiunge che è l’oratore in primo luogo a dover provare quei sentimenti: se facesse finta e basta, la sua espressione non avrebbe tale efficacia da trasmetterla al giudice. Più avanti, citando se stesso (ma è sempre Cicerone che sottoscrive), ricorda l’esigenza, nel corso dell’arringa o della requisitoria, di modificare lo stile (guai alla monotonia, guai a dimostrarsi sempre infuriato o sempre calmo, pur esaminando situazioni diverse: chi urla sempre o chi sussurra sempre, finisce per stancare il pubblico, tanto più se il discorso è lungo e complesso). Ancora, vengono esaminati i modi con cui coinvolgere emotivamente i giudici o il pubblico (anche far reagire il pubblico, che sussurra, si lamenta, o talvolta esce in esclamazioni, è un modo per far pressione sul giudice), ad esempio puntando sul disinteresse della persona difesa, sulla gelosia, sull’invidia (un corredo di “ottime” qualità per smuovere persone che dovrebbero essere del tutto indifferenti a simili emozioni), sul ridicolo (suscitare il riso per umiliare l’avversario), sull’ironia anche come uso di doppi sensi e giochi di parole.
Sempre saltando le considerazioni di carattere più tecnico, che qui consideriamo superflue ai fini del nostro argomento su temi estetici, Cicerone considera modello insuperabile nell’ironia proprio Socrate per piacevolezza e garbo, in cui scherzosità e serietà si affiancano e si armonizzano, ma elenca poi moltissimi altri esempi di personaggi della storia di Roma, tra cui Catone il Censore, celebri per le loro battute ironiche o sarcastiche:
“… Il riso si sollecita frustrando le attese, deridendo il carattere altrui, rivelando in modo comico il proprio, con paragoni degradanti, oppure facendo dell’ironia o dicendo cose paradossali o censurando la stupidità. Pertanto, colui che vorrà esprimersi in modo spiritoso, dovrà assumere un’indole, per così dire, e abitudini consone ai vari generi, in modo tale da saper adeguare anche l’espressione ai vari tipi di facezie. E quanto più uno è serio e severo…, tanto più sapide solitamente risultano le sue battute…” (16) .
Sempre secondo il grande oratore, le battute di spirito sono molto importanti nei discorsi al popolo, che richiedono brevità, sintesi, conoscenza della psicologia di massa, ovvero prevederne le reazioni, in modo da conquistarne la simpatia o, almeno, evitarne la contestazione che può seppellire colui che parla in un coro potentissimo di urla e di fischi (oggi, almeno; non so se al tempo dei Romani si usasse fischiare gli oratori). Dopo altre disquisizioni di carattere tecnico, si passa al Libro III, all’inizio del quale si rievoca la morte, frattanto avvenuta, di Crasso, esprimendo dolore per questo, ma anche il conforto che non avesse potuto vedere l’aggravarsi delle guerre civili. Si riprende poi il dialogo. Per Crasso, l’unione tra contenuto e forma risulta imprescindibile anche nel discorso :
“… infatti ogni orazione è fatta di contenuto e di parole: le parole non trovano collocazione se viene a mancare il contenuto, e il contenuto non si può esprimere con chiarezza eliminando le parole [oggi errano anche coloro che sostengono che certe immagini sono più significative delle parole, dimenticandosi che già una tale affermazione è costituita da parole. Se, infatti, ci limitassimo a vedere immagini fotografiche, senza didascalie, o immagini in movimento senza l’accompagnamento sonoro, non capiremmo nulla dei fatti in corso pur trattandosi di personaggi già conosciuti. Basta provare a togliere l’audio: che cosa si capisce di quanto si vede?]. credo che i grandi del passato, che avevano una visione mentale più ampia, abbiano spinto la loro comprensione ben al di là di quanto possa farlo il nostro ingegno: essi affermarono infatti che quanto esiste sopra e sotto di noi è un tutto unico, tenuto insieme da un’unica forza e armonia della natura, Non vi è nessun genere di cose che possa esistere da solo, separato dagli altri, e che non sia indispensabile agli altri per conservare la loro essenza e la loro eternità…” (17) .
Cicerone mette così in bocca a Crasso una giustificazione ontologica panteistica per la sua concezione estetica, sul rapporto stretto ed ineliminabile tra forma e contenuto nell’arte del discorso (e, aggiungerei io, in qualunque forma d’arte, dove ad esempio il termine “arte astratta”, pretendendo di rappresentare solo una forma, un’astrazione senza un determinato contenuto, è tutto sommato inapplicabile o contraddittorio, in quanto il contenuto, seppure non corrispondente ad una realtà concreta, è pur sempre sussistente come disegno, come rappresentazione grafica, come colore, e così via). Ancora, Crasso critica i contemporanei, i quali, non sapendo cogliere l’unità della realtà, affrontano i problemi suddividendoli ed analizzandoli in modo da risultare dispersivo, e quindi rendendoli irrisolvibili. Prosegue sottolineando che, nell’eloquenza, esistono sicuramente stili diversi, ma devono comunque essere tutti piacevoli, mostrando come anche in altre arti ciò avvenga, sollecitando il piacere di tutti i sensi; elogia la dignità ed il garbo di Catulo, la celebre espressione di Cesare, allora del tutto nuova, l’accuratezza e precisione di Cotta, l’impeto di Sulpicio, la forza e la veemenza di Antonio (sono gli interlocutori nel dialogo). Tornando alle origini, sottolinea le comuni radici tra oratoria e filosofia, specialmente nella Grecia classica, ritorna su Socrate, che considera un modello sotto ambedue gli aspetti. Riguardo alla filosofia più idonea in quel momento all’arte oratoria, Cicerone respinge quella degli epicurei, degli stoici, soffermandosi su peripatetici (aristotelici) ed accademici (platonici, a loro volta divisi in due scuole). Cicerone qui adotta una curiosa metafora, sostenendo che da uno stesso “fiume”, un ramo sfociò nell’Adriatico, e fu quello dei filosofi, l’altro nel Tirreno, e fu quello degli oratori “etrusco, barbaro, pieno di scogli e pericoloso” (18): qui si apre come un lume sul rapporto, quasi ignorato, tra cultura etrusca e cultura romana. In una forma criptica, Cicerone sembra sostenere che l’oratoria romana, almeno nelle sue radici, non ebbe come modello quello ellenico, ma quello etrusco. La cosa appare di notevole interesse perché sulle arti letterarie etrusche conosciamo pochissimo, in parte perché già anticamente distrutto (Roma quasi si vergognava di dovere tantissimo all’Etruria, quasi un matricidio psicologico), in parte perché perduto successivamente (ricordo che ancora l’imperatore Claudio scrisse un’opera sulle antichità etrusche) .
L’esposizione di Crasso procede ancora lungamente con un’analisi dei vari aspetti e delle parti del discorso che più o meno ricalcano quanto detto dai rètori precedenti e che ritengo inutile ripetere qui (come si è detto la monotonia annoia l’ascoltatore e il lettore, ed anch’io devo rispettare questa regola evidente, se non voglio che chi mi segue, passi a cose più amene…). Verso la conclusione si ribadiscono le analogie tra attore ed oratore, per quanto riguarda certi aspetti: in fin dei conti, l’oratore non è che un attore che recita una parte specifica riguardante però fatti reali in corso, e non situazioni del tutto inventate o in parte romanzate, come farebbe un attore. Così avviandomi alla conclusione di quest’opera, ritengo opportuno riportare le parole stesse di Cicerone, che mi sembrano ineguagliabili per chiarezza concettuale e finezza psicologica :
“ Tutte queste emozioni devono essere accompagnate dal gestire, ma non da quello teatrale…, bensì… che chiarisca la situazione e il pensiero in generale, non con la mimica [punto assai interessante questo, di fronte ad oratori celebri del ‘900, pensiamo ad un Mussolini o a Hitler, ed altri che molto puntavano sulla mimica: Hitler arrivava anche a vere e proprie smorfie. L’oratore deve mantenere dignità al suo volto, non far “boccacce”, appena gli occhi o qualche cenno del viso devono esprimere i moti dell’animo; è sulla voce che bisogna contare e sul gesto non eccessivo] ma con semplici cenni, e questo portamento del busto vigoroso e virile preso… da chi si esercita con le armi e nella palestra. I movimenti delle mani devono essere meno espressivi, con le dita che accompagnano le parole e non le sostituiscono; il braccio, quasi come l’arma dell’orazione, deve essere ben proteso in avanti; nei momenti di maggior tensione… si batterà il piede. L’elemento fondamentale è però l’espressione del viso, che a sua volta dipende completamente da quella degli occhi… L’actio scaturisce direttamente dall’anima; il volto è lo specchio dell’anima, e gli occhi ne sono gli interpreti, perché essi sono la sola parte del corpo capace di dare espressione diversa a tutte le passioni e a tutte le loro sfumature… Perciò c’è bisogno di grande senso della misura nel muovere gli occhi: non si deve alterare troppo l’espressione del volto, per non cadere nel ridicolo o in qualche smorfia… usare gli occhi, assumendo un’aria severa, ora mite, ora corrucciata, ora ilare…
… l’espressione del viso è la cosa più importante dopo la voce: ed essa dipende dagli occhi…
Senza alcun dubbio… riveste il ruolo più importante la voce. Dobbiamo in primo luogo augurarci di averne e poi prendercene cura, qualunque essa sia. Il modo migliore di curare la voce non rientra affatto nei precetti che vi sto esponendo tuttavia ritengo che essa sia da coltivare con molta attenzione… Per preservare la voce niente è più utile del frequente mutamento di tono, e niente è più dannoso di una tensione continua…
… In ogni voce c’è un tono medio, ma ciascuna voce ha il suo; l’innalzare gradatamente la voce dal tono medio è utile e piacevole (iniziare a parlare gridando ha infatti un che di rozzo), ed è anche benefico per conferire forza alla voce stessa. C’è poi un punto estremo del forzare la voce, che si trova però più in basso della nota più acuta… Di contro… c’è il punto estremo di abbassamento, che si raggiunge scendendo per così dire una scala di toni. Questa varietà e questi passaggi ella voce attraverso tutti i toni salvaguarderanno la voce e aggiungeranno fascino all’actio…”(19) .
Potrebbe essere interessante, ma io non sono in grado di farlo con la dovuta competenza, confrontare queste regole d’uso della voce con quelle più specifiche e complesse del canto, ma sarebbe da sottolineare una notevole differenza: mentre l’oratore pronuncia il suo discorso, e dà egli stesso l’andamento dei toni e del volume necessari (o che tali ritiene), nel canto le regole vengono date dall’andamento musicale di base, che, se può sicuramente essere variato nel tempo e nel volume, non può essere variato nella successione matematica delle note. Con queste osservazioni e con qualche inevitabile convenevolo, il dialogo si conclude .
Personalmente, a commento conclusivo e riassuntivo, osservo i seguenti punti fondamentali :
1) la capacità oratoria è un elemento essenzialmente congenito della persona, una dote naturale, che è caratterizzata dall’abilità di impostare un discorso in modo logicamente ordinato e “piacevole” (non nel senso che diverta necessariamente, ma che sappia conquistare l’interesse degli ascoltatori) ;
2) tale capacità è rafforzata dalla dote naturale di una voce forte e gradevole, non stridula e non monotona, che sappia variarsi di tono, di volume e di ritmo ;
3) non conta la bellezza fisica dell’oratore o la sua imponenza, ma l’atteggiamento, che deve “imporsi” psicologicamente agli ascoltatori, dimostrando autorevolezza ;
4) i contenuti del discorso (che non sia una conferenza di natura scientifica, ovviamente) devono essere esposti in maniera stringata, sintetica, tale da esporre concetti fondamentali, non come puri slogans propagandistici, ma come conclusioni di un ragionamento implicito ;
5) le doti naturali si affinano con l’esercizio e l’esperienza (soprattutto, si intende l’esperienza di parlare ad un pubblico, cosa questa che, le prime volte, intimidisce, anche di fronte a bambini, come ben sanno gli insegnanti); oggi i nostri mezzi tecnici ci consentono di osservarci con l’occhio di un estraneo, nel senso che l’oratore non deve fare esercitazioni artificiose davanti ad uno specchio, immaginandosi di essere di fronte ad una folla, bensì farsi filmare senza che lo sappia, in una situazione reale, quindi osservarsi criticamente, onde eliminare gli inevitabili, ma più vistosi, difetti di atteggiamento e di pronuncia. La perfezione è impossibile e sarebbe, di fatto controproducente, perché andrebbe a danno della naturalezza e della personalità del discorso: i difetti, se non eccessivi, dànno comunque un carattere personale all’eloquenza dell’oratore. Se tutti fossimo perfetti, tutti saremmo uguali e, dunque, ripetitivi e noiosi: meglio dunque difetti limitati e perdonabili, che non la monotonia artificiosa .

L’altra opera, che qui esaminerò ben più sinteticamente, viene attribuita a Cicerone, ma molti non la considerano tale: non starò ad analizzare se l’attribuzione abbia o non abbia una qualche validità, ma la cosa più probabile è che “La retorica a Gaio Erennio” , se non direttamente ciceroniana, sia di qualche suo alunno, seguace ed ammiratore, come spesso accadeva nell’antichità. Generalmente questi testi di falsi o dubbi autori sono preceduti da uno “pseudo”, come vedremo per Longino “Sul sublime”; nel caso di questo testo di retorica, l’attribuzione è diretta e, seppure il commentatore Filippo Cancelli, la escluda, pur tuttavia il nome dell’autore si riferisce al grande oratore, filosofo e console romano. In sincerità, io nulla posso aggiungere su questo, per cui rinvio chi ne fosse interessato alla lettura delle presentazioni del testo, nell’edizione citata alla nota (2). Chiarito questo problema, passo ad una analisi sommaria: il manuale di retorica si presenta in forma di lettera, non di dialogo come l’opera precedente, e si distingue in quattro libri, il primo dei quali espone i generi delle cause e dei conseguenti stili, secondo il modello greco, già visto in Aristotele e successori (dimostrativo, deliberativo e giudiziale). Il compito dell’oratore è la persuasione (20), ed il suo discorso deve essere ordinato secondo le tappe dell’invenzione, della disposizione, dell’elocuzione, della memoria, della pronuncia .
Già queste distinzioni hanno un che di artefatto: mi ricordano le regole che a noi bambini, circa cinquant’anni fa, ci davano per la stesura di un tema, cominciando da una necessaria introduzione, seguita dall’esposizione e dalla conclusione, come se, senza aver seguito questa rigida tripartizione, lo svolgimento non valesse nulla. Il bello stile, invece, richiede spesso di entrare nel mezzo del discorso senza eccessive premesse: il guaio è che queste regolette, che in certa misura sono necessarie al fine di dare ordine al discorso, rischiano però di bloccare lo scrittore in erba, pensando di dover fare chissà che. Personalmente, ho cominciato ad imparare a scrivere (o, almeno, lo spero…) quando non mi sono più curato di far contenti i docenti di italiano, scrivendo come mi veniva spontaneo .
Il II Libro si occupa della causa del discorso, soprattutto in sede di dibattimento giudiziario. Il III Libro riguarda parti successive del discorso, come la disposizione, la pronuncia e la memoria. Il IV Libro è rivolto all’elocuzione, sotto l’aspetto della forma, ovvero quella estetica, ed è pertanto l’unico di cui mi occuperò in modo diretto. L’Autore sostiene l’esigenza di affrontare l’aspetto estetico, non con esempi altrui frutto di una modestia più o meno sincera, ma comunque inefficace, ma con esempi propri :
“… Sostengo dunque che peccano quelli perché usano gli esempi degli altri, ancor più sbagliano perché traggono gli esempi da molti (autori)… “ (21) .
Secondo l’Autore, gli esempi altrui non sono rispondenti all’arte, sono spesso citati forzatamente e in modo inadatto. E’ altresì opportuno non adoperare le antiche dizioni greche, ormai lontane dall’uso, e dunque ostiche. Distingue così la precettistica in due parti, quella sulle forme dell’elocuzione e quella dei caratteri che deve avere. Malgrado le promesse, egli tuttavia non sembra fornito di particolare originalità in queste suddivisioni, distinguendo gli stili come elevato, medio e umile. Il primo è caratterizzato da armoniosa struttura con nobili parole, il medio - ovviamente - si pone ad un livello più basso, ma senza essere pedestre, l’umile corrisponde all’incirca al parlare quotidiano, seppure in forme corrette. Siccome la lingua batte dove il dente duole, e nel suo caso come in quello di molti altri retori, ci si riferisce al discorso giudiziario, ecco che ce ne dà un esempio .
“… ‘Chi infatti è di voi, o giudici, che possa immaginare una pena abbastanza adeguata contro colui che ha meditato di abbandonar la patria ai nemici ? quale delitto può compararsi a questo misfatto, quale supplizio può trovarsi proporzionato a questo crimine ? Gli antenati comminarono le pene massime contro quelli che avessero usato violenza a un uomo libero, o fatto oltraggio a una matrona..., non riserbarono a questo trucissimo ed empio misfatto, una pena particolare…” (22) . E’ pur curioso che, dopo aver fatto seguito con una serie di esclamazioni (23), tuttavia non sembra raggiungere né elevatezza, né ragionevolezza e conclusività del discorso. L’esempio che segue, in stile medio, non cambia nulla nei contenuti, ma presenta il delitto in forma più discorsiva :
“… ‘ Vedete, giudici, contro chi facciamo la guerra. Con alleati i quali sono stati soliti combattere per noi e insieme con noi difendere con valore ed energia il nostro impero… Essi, avendo deciso di farci la guerra, domando, qual era la cosa, fidando nella quale tentassero di intraprendere l’ostilità, mentre comprendevano che la stragrande maggioranza degli alleati sarebbe rimasta nella osservanza [del rapporto di amicizia] ?…” (24) .
Dopo una serie di arzigogoli, sinceramente di dubbio gusto, risponde a se stesso, ma per nulla dimostrando di che si tratta, che questi alleati hanno tradito per la ragione sostenuta dall’oratore, senza che questa ragione si sappia. Segue poi un esempio di stile umile, riguardante un tema ancora inferiore, ovvero un litigio ai bagni pubblici. Ora, prima di mostrare questo esempio, ritengo necessario osservare che qui l’Autore si contraddice, perché dopo aver parlato di stili, in realtà parla di contenuti, da quello più rilevante (il tradimento della patria da parte di un cittadino), a quello meno rilevante (il tradimento di un alleato), a quello di rilievo infimo (un litigio al bagno). eppure, lo stile avrebbe dovuto riguardare un medesimo contenuto, ovvero come poteva essere affrontata la questione tradimento della patria, con tono elevato, con tono medio e con tono minimo, perché allora la differenza si sarebbe potuta notare meglio. Forse, proprio in questa rozzezza di esposizione, potrebbe essere chiara la non attribuibilità a Cicerone dell’opera (c’è una notevole differenza tra “L’Oratore” e “La Retorica” proprio nella capacità argomentativa e nelle esemplificazioni). Vediamo dunque qualche riga dell’esempio :
“… Come infatti questi per caso fu giunto ai bagni, dopo che si fu asperso, cominciò a massaggiarsi; poi, quando parve il momento di scendere nella vasca, eccoti, tutt’a un tratto, costui: ‘Ehi – dice – giovanotto, i tuoi servi mi hanno or ora picchiato; bisogna che tu me ne soddisfaccia’. Questi, a quell’età, per essere stato chiamato da uno sconosciuto fuor dell’abitudine, arrossì…” (25) .
Non è necessario continuare la citazione: il più giovane si sente offeso di essere richiamato con urli in un luogo pubblico. L’esempio finisce senza conclusione. Diciamo, dunque, che anche tale esempio, per quanto riferito ad un semplice litigio, non pare molto confacente: infatti, il vero Cicerone, se non è l’Autore di questo scritto, avrebbe potuto obiettare che ogni argomento può essere trattato nei tre stili, o anche in uno stile misto dei tre, con carica ironica o derisoria, oppure amplificativi, a seconda delle necessità. Certamente, lo stile è condizionato dall’argomento, ma non a tal punto da dover essere utilizzato in modo rigido. L’Autore, infatti, poi aggiunge, ma non certo coerentemente che :
“… Bisogna poi fare attenzione, che, mentre perseguiamo queste forme di stili, non cadiamo nei difetti prossimi e connessi. Infatti, allo stile elevato, che è lodevole,, è vicino quello, che è da fuggirsi, il quale… si denominerà gonfiato… così il discorso elevato spesso agli sprovveduti pare sia quello che è turgido e ampolloso, quando qualcosa è detto o con neologismi o con arcaismi… o con più altisonanti termini di quanto richieda il soggetto…” (26) .
In effetti, un argomento elevato deve essere trattato, preferibilmente, con stile e toni elevati, ma può pure essere trattato con sobria semplicità, se tale modo corrisponde ai sentimenti dell’oratore o dello scrittore, o se il pubblico, di un certo tipo, lo capisce meglio. Viceversa, un argomento pedestre, trattato in tono elevato, diventa ridicolo, e ciò potrebbe essere fatto a scopi ironici (gonfiare prima, per sgonfiarlo poi). Sicuramente, pensando agli esempi portati dall’Autore, il tradimento della patria e una discussione ai bagni non sono argomenti trattabili nel medesimo stile e negli stessi toni, quantunque si possano usare stili misti, in modo da dare varietà al discorso (ad esempio, due oratori diversi esporranno lo stesso evento l’uno sottolineando certi aspetti e calcando certi fatti, l’altro potrebbe fare il contrario) .
Per l’Autore, dopo aver tratteggiato la questione degli stili in forma eccessiva o caricata, sostiene che una perfetta elocuzione deve possedere un linguaggio puro e schietto, fornito di latinità (ovvero, proprietà di linguaggio, senza uso di barbarismi) e chiaro, ovvero privo di solecismi, termini che non si accordano con i precedenti. Il discorso deve essere altresì chiaro, usando termini usuali, non di difficile comprensione (ciò val bene negli stili medio ed umile, ma non si accorda con lo stile elevato o solenne, che tende viceversa ad un linguaggio più raro, almeno per l’ascoltatore o il lettore comune: è evidente che molto dipende dal tipo di pubblico). Consiglia di non abusare troppo di termini con vocali che, a suo parere, rendono l’espressione sgraziata: per capire questo, è impossibile citare l’esempio in italiano, per forza di cose; ritengo più opportuno farlo in latino (e poi riportarne la traduzione):
“ Bacae aeneae amoenissime impendebant “ (palline bronzee pendevano gradevolissimamente )
“O Tite, tute, Tatei, tibi tanta, tyranne, tulisti, / et hic eiusdem poetae…” (O Tito Tazio, tu proprio, tiranno, ti gravasti di sì gran mali, e quest’altro dello stesso poeta)(26) .
L’Autore condanna sia il sovraccarico di vocali, come nel primo verso, sia l’eccessiva ripetizione di una medesima consonante, come allitterazione. Prosegue col segnalare come si possa raggiungere la bellezza, che orna, insieme alla varietà, il discorso: la varietà appare così fondamento imprescindibile della bellezza. Spiega poi alcune figure retoriche, come l’epanafora o anafora, che consiste nel ripetere lo steso inizio, con scopo rafforzativo. Perché non risulti noioso, dovrà esser pronunciato in un crescendo di tono e volume, perché altrimenti si tratterebbe di pura ripetizione. L’antistrofe o epifora è la ripetizione di una parola, ma alla fine del discorso, quasi come un riassunto. La pronuncia dev’essere sempre in crescendo. Segue con ulteriori esempi di figure retoriche, già del resto viste in precedenti occasioni e di scarso interesse. Ricade ancora una volta nel discorso giudiziario, questa volta con un lungo esempio sul comportamento poco casto di una donna: anche qui non sembra il caso di soffermarsi nelle citazioni, in quanto abbastanza banale (qui il filosofo Gorgia, con ben altro spirito e finezza, psicologica ed argomentativi, aveva difeso Elena, dall’accusa di aver provocato una guerra col suo peccaminoso comportamento). Figure ed esempi verbali sono numerosissimi, ma ai nostri fini di scarsa utilità: il difetto di questo tipo di retorica, del quale l’Autore aveva pur preteso di voler dare un’aria di originalità, è quello di essere puramente classificatorio (tassonomico). Irrigidendo il discorso in formule prestabilite, invece di abbellirlo, lo appesantisce. Alla fine, chi volesse applicarlo, finirebbe per renderlo rigido e noioso: assomiglia molto al metodo giuridico, nell’ambito del quale del resto nasce. Scarsa capacità di vita e sterilità estetica sono le conseguenze di un simile modo di procedere. Ben diverso era stato il discorso di Cicerone nell’”Oratore”, dove si vedeva una certa vivacità artistica anche nei punti più tecnici. Quindi, forse più che in un linguaggio meno sciolto, l’appartenenza ad uno scrittore diverso da Cicerone è data proprio dalla diversa mentalità ed impostazione, anche se la cosa può essere in parte giustificata trattandosi di un manuale. Eppure, se si fosse voluto insegnare ad un giovane il gusto per gli stili belli, sarebbe stato più opportuno sollecitarlo a leggere grandi scrittori, piuttosto che rimpinzarlo di formule rigide. E’ proprio a causa di una tale mentalità, incapace di uscire dagli schemi fissi o di tentare almeno di renderli più flessibili, che la letteratura latina comincia una sua inarrestabile decadenza nei secoli dell’Impero, e la retorica apparire rigida e falsa; per poter risollevarsi, occorrerà arrivare al Basso Medioevo e alle letterature neolatine o “volgari”. Nel prossimo saggio, tuttavia, resterò ancora in ambito classico con il testo “Del Sublime” dello Pseudo-Longino .


NOTE :

(1) Utilizzo, anche per maggior reperibilità, l’edizione della BUR (Milano, 2006), con testo a fronte, a cura di Emanuele Narducci, con note di Ilaria Torzi e Giovanna Cettuzzi, che sono anche le traduttrici, insieme a Mario Martina e Marina Ogrin. L’opera è del 55 a. C. .
(2) Qui il riferimento è all’edizione negli Oscar Mondadori, a cura di Filippo Cancelli che ne è anche il traduttore, sempre con testo a fronte (Milano, 1998) .
(3) “Sull’Oratore”, ed. cit., pag. 127 .
(4) Si tratta di un riferimento, non solo generale, ma anche autobiografico. Egli stesso si recò in Grecia, studiando l’oratoria alla Scuola di Molone, che cercava di mediare tra le due tendenze quella asiana (ampollosa, diremmo “barocca”) e quella più lineare e semplice di Lisia .
(5) Povero Catone (il maggiore, il Censore, il nemico assoluto di Cartagine), se avesse visto e sentito i politici d’oggi, né onesti, né esperti nell’arte del dire ! Pensiamo alla frase di moda che politici, sindacalisti e giornalisti adottano imitandosi l’un l’altro come pappagalli deficienti: non si usa dire più il verbo “distribuire”, riguardo ad esempio agli orari, al denaro o alle persone, ma “spalmare” (horridum auditu !!), come se si trattasse di burro, marmellata, crema, o stracchino, da mettere su una fetta di pane (giorni fa, un’agente di polizia stradale, una donna ufficiale, è uscita col dire che i morti in incidenti automobilistici erano “spalmati” in un determinato periodo: poveri morti, oltre che maciullati fra le lamiere, vengono poi addirittura “spalmati” come si fa con le fette imburrate ed arricchite di marmellata…) ! Io penso che, quando nei loro avelli questi grandi oratori esperti nell’arte del dire ascoltano simili frasari, si rivoltano facendo scricchiolare le loro ossa e i loro crani, con un selvaggio “rumor di croste”. Qualcuno, come Ugolino, si metterà a rosicchiare il cranio del vicino; qualche altro, pur se già ridotto in cenere, ruoterà i propri atomi, le proprie residue molecole in giri vorticosi e stridenti, in modo da far sentire il loro coro di protesta fin nell’alto dei cieli, perché Dio mandi giù qualche nuovo Diluvio o qualche bombardamento di pece, zolfo e fuoco, al fine di annichilire questi emettitori di rumori e di frastuoni !
(6) ibidem, pag. 131 .
(7) ibidem, pag. 133. Questo criterio ricorda in positivo quello espresso da Wittgenstein in forma negativa: “Di ciò di cui non si può parlare, occorre tacere”. L’asserzione in sé appare ovvia, soprattutto se tradotta alla lettera. Meglio sarebbe dire : “Su ciò che non si conosce, occorre tacere”. In effetti, quanta gente parla e a lungo di cose che non conosce affatto, riportando pedissequamente ciò che ha letto sul giornale o sentito su qualche mezzo audiovisivo. Soprattutto, se le cose non vengono rielaborate criticamente e comparate con altre informazioni e fonti di informazione, si finisce per sproloquiare, emettendo suoni piuttosto che parole e, attraverso esse, concetti e cose .
(8) ibidem, pag. 155 .
(9) ibidem, pag. 167 .
(10) ibidem, pag. 171 .
(11) ibidem, pag. 191 .
(12) ibidem, pag. 193 .
(13) ibidem, pag. 197 .
(14) ibidem, pag, 199 .
(15) ibidem, pagg. 429 – 431 .
(16) ibidem, pag. 517 .
(17) ibidem, pag. 585 .
(18) ibidem, pag. 621 .
(19) ibidem, pagg. 735 – 739 .
(20) Pensiamo alla celeberrima, ed oggi ipergonfiata tesi incompiuta di Carlo Michaelstaedter, il quale, da bravo ragazzo, contrappose invece la persuasione alla “rettorica”, come se le due cose dovessero essere completamente diverse, secondo uno spirito, a sua volta del tutto retorico, che la retorica sia cosa falsa e negativa. Ora, la retorica non è altro che uno strumento, che può essere bene o male adoperato; non è buona o cattiva in sé. Ogni volta che vogliamo dare regole (e non possiamo non darle, perché altrimenti il parlare risulterebbe incomprensibile ed intrasmissibile) al nostro discorso, facciamo della “retorica”. L’ingenuità o l’errore degli antichi non era di crearsi una retorica, anche se eccessiva nel suo formalismo, ma nell’illusione, più volte da me sottolineata a costo di annoiare il lettore, che essa possa “persuadere”, mentre può limitarsi soltanto ad “interessare” l’ascoltatore, il quale può di sua spontanea iniziativa approvare, disapprovare o restare incerto sui contenuti proposti dall’oratore .
(21) M. Tullio Cicerone, “La Retorica a Gaio Erennio”, ed. cit., Libro IV, pag. 189 .
(22) ibidem, pag. 197 .
(23) Veramente, il testo in latino presenta dei vocativi che non sono esclamazioni, cioè “O”; il traduttore li trasforma in esclamazioni “oh”, il che rende il testo ancora più pesante. E’ grave, per un traduttore confondere il vocativo (che chiama un soggetto), con l’esclamativo che serve ad esprimere i sentimenti (di meraviglia, di dolore, di stupore) di chi parla. L’esclamativo può restare da solo, perché è espressivo, il vocativo non può sussistere da solo: questo un traduttore dovrebbe saperlo, ma evidentemente non lo sa (cfr. pagg. 198 -199) .
(24) ibidem, pag 199 .
(25) ibidem, pagg. 201 - 203 .
(26) ibidem, pagg. 208 – 209 .




U. P. S. CO.
“Tributa, a civibus data, pro civibus sunt”


All’ Illustre Signor
Commissario del Governo
Regione Friuli – Venezia Giulia,
Piazza Unità d’Italia, n. 8
34100 TRIESTE


Bertiolo (UD), 18 agosto 2008



OGGETTO : Formale comunicazione in merito alla cosiddetta “Festa dei popoli della Mitteleuropa”, svoltasi negli scorsi giorni a Cormòns (Gorizia). Atteggiamento anti-nazionale, anti-risorgimentale ed anti-italiano della stessa. Esposizione di pedissequa ammirazione, da parte della RAI del Friuli – Venezia Giulia, senza una qualche osservazione critica che segnali la falsificazione storica di tali manifestazioni, malgrado ripetuti richiami. Protesta per il fatto e Richiesta a Codesto Commissariato di sollecitazione all’Ente statale Rai ai suoi doveri di rispetto della storia italiana degli ultimi 150 anni e dello Stato italiano, posto in derisione da quelle manifestazioni .

Il sottoscritto, prof. TUMMOLO Manlio, nato a Trieste il 26 luglio 1948 ed attualmente residente a Bertiolo (Udine) nella frazione di Pozzecco in Via Udine n. 10, nella propria qualità di cittadino e contribuente italiano, nonché di coordinatore del Gruppo Promotore dell’UNIONE POLITICO-SOCIALE DEI CONTRIBUENTI, con sede al recapito di cui sopra ,

DESIDERA FAR PRESENTE ALLA ILL.MA S.V.

Di considerare l’ormai tradizionale “Festa dei popoli della Mitteleuropea”, svoltasi negli scorsi giorni a Cormòns (Gorizia), sempre più come un’occasione di falsificazione storica e di denigrazione sistematica dello Stato italiano, nato dal Risorgimento e dalla lotta anti-absburgica, denigrazione esplicita ed implicita operata anche per bocca dello stesso vescovo della Città di Gorizia, in quanto si proclama l’Impero Austro-Ungarico, con tutti i suoi beceri simboli (aquile bicipiti, bandiere giallo-nere, e tutto l’armamentario di uno Stato che, dopo aver oppresso gli Italiani, ed altri popoli europei, per secoli, sfruttandoli e violentandone la reale cultura e le tradizioni, inventando popoli e lingue come “nazioni” al puro fine di dividerle e contrapporle, e quindi dominarle meglio; causa fondamentale e finale della prima guerra mondiale con le minacce alla Serbia dopo l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando), ciò malgrado si tenta di contrabbandare tale Impero, per scherno soprannominato Kakania dallo scrittore Musil, come un modello di pace e di convivenza, quasi un “paradiso terrestre”. Evidentemente fu per distruggere questo mondo felice e senza macchia (l’Austria Felix), fino ad allora evidentemente pacifico ed intonso, che gli uomini del Risorgimento italiano, tedesco, polacco, ungherese, serbo, mossero per costruire un’Europa rappresentata come “nazionalista e guerrafondaia”. La stessa Vienna, quella che Giuseppe Mazzini chiamò “La Vienna del Popolo”, insorgendo per prima nell’Impero nel 1848, dando l’avvio alle insurrezioni di Milano, Venezia e della stessa Trieste, e nel 1918 subito dopo Vittorio Veneto, cacciando l’odiosa e sanguinaria dinastia per la seconda volta ed in modo definitivo, si macchiò dunque di lesa pace e di lesa umanità secondo questi bravi signori, che organizzano la penosa manifestazione , in evidente concerto col vescovo di Gorizia: eppure, gli uni e l’altro pur ricevono lauti finanziamenti dal deprecato Stato italiano, gli uni in forma di contributi per attività sedicenti “culturali”, l’altro con l’8 per mille, su cui evidentemente non sputa sopra il suo veleno di cattolico austriacante .


CIO’ DI CUI SI DUOLE PARTICOLARMENTE LO SCRIVENTE

Non è tanto l’azione di costoro, i quali, nutrendosi della pianta che generosamente li ospita, alla fine l’uccidono (o, almeno, così auspicano), quanto il fatto che un Ente statale, che dovrebbe essere di informazione e di educazione civile e morale, politica e sociale, quale la RAI del Friuli – Venezia Giulia, a sua volta vivente con i contributi di tutti i cittadini italiani, non austroungarici o mittel-europei, con dipendenti, giornalisti ed impiegati singolarmente ben stipendiati dallo Stato, malgrado ripetuti solleciti inviati dallo scrivente e, probabilmente, da altre persone che condividono i medesimi ideali, non solo non si degnano di rispondere giustificandosi in qualche modo dal ripetere slogans ed affermazioni come se fossero ispirate da Dio, anziché dal signor Otto von Habsburg, e questo sarebbe certo il meno, ma non effettuano una benché minima osservazione critica, e neppure vagamente ironica su tali dichiarazioni, atteggiamenti e prese di posizione, le quali, compiute nell’ormai 90° Anno dalla Vittoria del Piave e di Vittorio Veneto e dall’annientamento del bolso Impero Austro-Ungarico, costituiscono un evidente insulto ai caduti, ai loro discendenti, a coloro che avevano combattuto con ogni mezzo contro l’iniquità di tale Impero, in Italia e negli altri Paesi allora soggiogati, e dunque un insulto allo stesso Stato italiano, allora monarchico e liberale, oggi repubblicano e democratico, nato da quella centenaria lotta, insulto che non deve essere tollerato in alcun modo .


PERTANTO, LO SCRIVENTE CHIEDE ALLA S.V. ILL.MA

1) di sollecitare la RAI del Friuli – Venezia Giulia, e particolarmente la Direzione e Redazione del suo Radio- e Telegiornale, ad assumere atteggiamenti più obiettivi e critici nei confronti di manifestazioni pseudo-storiche e pseudo-culturali, che esaltino forze, regimi o Stati che hanno sempre ostacolato la formazione di uno Stato unitario italiano, vuoi in forma monarchica, vuoi in forma repubblicana, in quanto la struttura nazionale, ben lungi dall’aumentare le condizioni belliche in Europa, le ha storicamente ridotte (e a ciò basti il richiamo ad una qualunque cronologia degli ultimi secoli, a partire dal XVI per concludersi col XX) ;
2) di rivedere ogni forma di finanziamento oneroso per i contribuenti italiani a manifestazioni ed associazioni sedicenti culturali che mirino alla svalutazione, alla disgregazione morale, al disprezzo verso lo Stato unitario italiano e le sue Istituzioni .

Distinti Saluti
*********************
Per il Gruppo Promotore
dell’ UNIONE POLITICO-SOCIALE DEI CONTRIBUENTI
***************************************************
prof. Manlio Tummolo
dr. in Pedagogia ed in Giurisprudenza




Spettabile Redazione
de “IL GAZZETTINO” - ed. on line
direttore@gazzettino.it
Alla Spettabile Redazione
di Radio 3 Mondo
RAI
Piazzale Willy De Luca
SAXA RUBRA (Roma)


OGGETTO : Gli U.S.A. come luogo mitico della libertà .
Bertiolo (UD), 5 giugno 2008

Ho seguito la Vostra trasmissione di oggi, nella sua prima parte, finché non vi è stata la solita pausa “musicale” (sempre dello stesso tipo, ahinoi !). Un tema comunque sempre molto interessante, riguardo alla lotta al e del terrorismo internazionale, trattato tuttavia con la mentalità tipica dei giornalisti, i quali, a differenza dei veri storici, vedono i fatti giorno per giorno, settimana per settimana, secondo i limiti cronologici del mezzo d’informazione su cui scrivono. C’è in molti la tendenza a meravigliarsi della metodologia violenta ed antiliberale adottata nei confronti di veri e supposti terroristi, e questa meraviglia è data soprattutto dall’idea mitologica che gli U.S.A. rappresentino una terra di libertà. Questo mito, connesso a quello della felicità, della ricchezza, della potenza, ottimamente espresso in molte poesie di Walt Withman, ha origini antichissime, quando l’uomo, seguendo il moto del sole, si indirizzava verso ovest, sempre cercando qualcosa che non poteva trovare, ma che identificava di volta in volta con Atlantide, con le Isole Fortunate, con l’Eldorado, per finire negli Stati Uniti d’America, un agglomerato di colonie che non ha saputo neppure darsi un nome proprio di Stato, ma si è identificata automaticamente con quello dell’ intero continente sul quale si trovava. Un sintomo significativo di scarsa consapevolezza interiore, logicamente espressa, facile dunque a trasformarsi in forme mitiche e mitosofiche (la mitologia, propriamente, ha aspetti di ricerca scientifica; per mitosofia, sulla linea di “teosofia” o “antroposofia” intendo la pretesa di conoscenza immediata, intuitiva rivelata o ispirata, di una credenza di natura simbolica, poetica, quasi inconscia), con degenerazioni assolutamente ovvie, che chiunque può constatare nella storia dell’unione nordamericana e nella lettura di autori, come Whitman e simili. Tale mito poi è stato in gran parte assorbito dagli Europei rimasti nel Vecchio Continente o andativi più tardi. Una vecchia canzone triestina, diffusa sotto l’Imperial-Regio Governo Austriaco, tanto decantato dagli imbecilli ignoranti come modello di efficienza e di benessere (altro mito tuttora permanente), diceva così :
“Magari col caro de Zimolo,
magari col caro de Zimolo,
in America voio andar…
Magari a cavalo de un bacolo,
magari a cavalo de un bacolo,
in America voio andar… ecc”
(la traduzione per i non Triestini: “magari col carro della Ditta Mortuaria Zimolo o magari a cavallo di uno scarafaggio, in America voglio andar…”). Dunque, l’America, particolarmente gli U.S.A, hanno rappresentato un ideale di condizione, in cui tutti facevano fortuna e ritornavano, se ritornavano, ricchi e felici, magari con qualche sacrificio. Questa idea era particolarmente diffusa tra i ceti popolari: in quelli più colti, grazie anche al fatto che a New York entrando nel porto si vede la grande statua della Libertà (donata dalla Francia, però, e non mi pare ne esistano altre all’interno degli Stati Uniti), gli U.S.A. venivano rappresentati, confondendo aspetti anarcoidi ed individualisti con la Democrazia e con la Libertà, come il paese della Libertà per definizione, e della democrazia, grazie anche al Tocqueville, che democratico non era e di democrazia capiva poco, tanto che fu il ministro di Luigi Napoleone Bonaparte, e che calunniò apertamente la Repubblica Romana del 1849 agendo per strangolarla nei suoi pochi mesi di vita. In effetti, invece, verso la fine del XIX secolo ed inizi XX, gli Stati Uniti vennero considerati da forze più realistiche come il maggior esemplare, con l’Inghilterra, dell’imperialismo, sia pure in forme meno aperte e smaccate: a questo proposito lo storico Fritz Fischer, nel suo “Assalto al potere mondiale” descrisse bene l’atteggiamento della Germania guglielmina che vedeva gli U.S.A. come un esempio da seguire. Un altro grande storico, Raimondo Luraghi, ci ha spiegato nella sua “Storia della Guerra Civile Americana” quanto poco democratico fosse il metodo degli unionisti per soffocare la resistenza del sud (se uno storico non piace, basti rileggere “Via col Vento”). Hitler stesso, poi, prese a modello gli U.S.A, particolarmente la poco democratica politica del big stick nei confronti dell’America Latina (e perfino il “democraticissimo” Wilson,l’ideatore della Società delle Nazioni ecc., assunse ben altri atteggiamenti nei confronti del Messico), per la sua azione in Europa e nel mondo.
Si chiede ai Turchi di riconoscere lo sterminio degli Armeni, ma tutti si guardano bene dall’esigere la richiesta di scuse degli U.S.A. nei confronti delle popolazioni amerindie dei loro territori, notoriamente sterminate e poi rinchiuse in quelle riserve che furono modello per gli Inglesi contro i Boeri e dei Tedeschi nei confronti degli Ebrei, ecc. . A che meravigliarsi, dunque, di Guantanamo ? tutti i governi degli Stati Uniti, a partire almeno dalla Guerra contro il Messico del 1844, hanno adottato sistemi terroristici di estrema spietatezza, quando un qualunque popolo non si lasciava incantare dalle sue caramelle, dai suoi chewing-gums, dalla sua Coca Cola, dal suo formaggio giallo in scatola, dagli scarti della sua tecnologia; di tanto in tanto, come i soldati spagnoli del Manzoni, anche qui in Italia dànno qualche lezione di modestia, come per il Cernìs ed altro, qualora mai avessimo intenzione di svegliarci o di liberarci dalla loro comodamente oppressiva presenza (*) .
Gli U.S.A non sono propriamente governati da una democrazia, bensì da un’oligarchia di alto-borghesi plutocrati e schiavisti (tuttora…) che decide tutto sulle spalle di un popolo ormai quasi completamente immerso nell’unica attività di riempirsi lo stomaco e di soddisfare le esigenze biologiche nella maniera più comoda; ma guai ai popoli che confondono la Libertà con la comodità: la prima è condizione di responsabilità, come ci hanno insegnato Kant, Fichte e Mazzini, strumenti per la realizzazione cosciente del Dovere; la seconda, è solo il mezzo con il quale le tirannie, i poteri assoluti, i poteri antipopolari fondati sulla mistificazione tengono buona una plebaglia nell’illusione che non si ribelli mai, si riempia lo stomaco, si vuoti il cervello ed annulli la propria coscienza morale .

Distinti Saluti ,
prof. Manlio Tummolo


NOTA (*) : Va rivista anche la fiaba, così largamente diffusa, che gli U.S.A. tra il 1943 ed il 1945 siano venuti a liberarci :
1) innanzitutto, l’iniziativa della guerra agli U.S.A. fu del Giappone, della Germania e dell’Italia, anche se - a dire il vero - il secondo Roosevelt aveva fatto tutto il possibile perché ciò avvenisse ;
2) evitare che il predominio tedesco in Europa e giapponese in Asia potesse poi estendersi al continente americano stesso (particolarmente nell’America Latina, dove i rischi di un’influenza italiana ed in parte tedesca erano molto forti) :
3) sostituire al predominio tedesco in Europa il predominio americano, fin dove ciò si potesse fare .

Se fossero venuti sul serio a “liberarci”, perché non tentarono almeno di “liberare” anche i popoli del centro-Europa, bloccando l’espansione sovietica ?



Manlio Tummolo
U. P. S. CO.
“Tributa, a civibus data, pro civibus sunt”





ISTITUTO GIUSEPPE KIRNER :
STORIA DI UN'INIQUITA'

(Testo tratto dal Notiziario “Kirner”, luglio – agosto 2001, sotto forma del manifesto del marzo – aprile 1982, anno di ricostituzione del “Notiziario” del vecchio Istituto “Giuseppe Kirner”) .



Dal “Kirner” al “Kirner” .

Ci scusiamo con i Colleghi se, pur non facendo parte del Comitato provvisorio designato a reggere l’Associazione volontaria “G. Kirner” - costituitasi nel dicembre 1978 (1) (anche se siamo stati fra i promotori), abbiamo aderito volentieri all’invito di aprire con una breve nota il primo numero del nuovo “Notiziario Kirner”, che si ricollega - e non solo idealmente – al vecchio Notiziario omonimo che ha cessato le sue pubblicazioni nel luglio dell’anno scorso dopo oltre dodici anni di vita. Questa nostra adesione non vuole essere l’intromissione in una attività dalla quale anche se intendiamo ‘rimanere fuori’ non ci consideriamo affatto estranei, né un semplice e doveroso atto formale di saluto di chi ‘lascia’ a coloro che iniziano un nuovo, delicato e difficile lavoro di ‘recupero’, ma l’occasione per un rapido sguardo al passato in chiave costruttiva per il futuro .
E’ con viva commozione che riprendiamo a parlare del ‘Kirner’. Il vecchio Istituto si ripresenta ai Colleghi nella sua nuova veste associativa e intende proseguire l’ opera altamente meritoria di solidarietà nei confronti del personale direttivo ed insegnante della Scuola secondaria, nonché delle loro famiglie, dei Soci cessati dal servizio e dei Superstiti di Soci, già perseguita per oltre settant’anni dall’Itsituto Kirner, Ente di diritto pubblico, le cui funzioni sono cessate il 5 agosto 1981, ai sensi dell’articolo 113 del D.P.R.. 24 luglio 1977, n. 618, provvedimento che riteniamo dettato più da una errata valutazione politica e sindacale che da effettive esigenze di riordinamento e adeguamento dei vari settori assistenziali e previdenziali del nostro paese .
Ma tant’è, rispettosi della volontà del Parlamento e dell’Esecutivo, ci siamo arresi - sia pure nostro malgrado e dopo aver tentato tutte le vie che ci erano consentite per salvare la nostra istituzione - ad una decisione che ritenevamo e riteniamo tuttora in evidente contrasto con la lettera e lo spirito dell’articolo 45 della Costituzione Repubblicana (‘La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità’). Che, d’altra parte si volesse sopprimere il ‘Kirner’, anche se per ragioni a noi del tutto ignote, è dimostrato dal fatto che si è lasciato - e giustamente - in vita altro Ente similare (‘’l’E.N.A.M.’’ Ente Nazionale Assistenza Magistrale (2) ) al quale esprimiamo tutta la nostra solidarietà e gli auguri più sinceri di buon lavoro e di prosperità .
Non va inoltre sottaciuto che delle varie decine di miliardi che costituivano (tra beni immobili, riserve e crediti nei confronti dello Stato) il patrimonio del cessato Ente di diritto pubblico ‘G. Kirner’, la maggior parte sono stati incamerati dallo Stato, mentre è notorio che detto patrimonio si è formato esclusivamente attraverso le contribuzioni dei professori, poiché lo Stato non ha mai contribuito - se non con la sovvenzione simbolica di lire quarantamila annue - né al ripianamento di eventuali bilanci deficitari (mai verificatosi), né ad aiuti di qualsiasi altra natura (3) .
Ma il nostro discorso e il nostro pensiero, anche se non possono prescindere da talune necessarie sottolineature che riguardano il passato, intendono proiettarsi verso il futuro vicino e lontano .
Siamo certi che i centonovantamila professori che sinora hanno aderito all’Associazione aumenteranno nei prossimi anni, sì da comprendere pressochè l’intero corpo direttivo e docente della Scuola secondaria .
Naturalmente il compito dell’Associazione non sarà facile. Si tratta di riprendere, allargandoli e intensificandoli, i contatti con i Soci e i non ancora Soci; di studiare nuove e più adeguate iniziative assistenziali e previdenziali che valgano ad accompagnare, integrandolo, il Servizio Sanitario Nazionale, proprio mentre sta muovendo i suoi primi passi fra difficoltà e carenze di ogni genere: e soprattutto di restare vicino ai Soci quando eventi imprevisti e dolorosi provocano loro disagi morali ed economici, ai Superstiti di Sopci (vedove, orfani, genitori, ecc.) e cioè a coloro verso i quali la solidarietà dei Colleghi in servizio si è sempre dimostrata per il passato attenta, sollecita, disinteressata e generosa .
Così operando si avrà la riprova che il ‘Kirner’ non era un ‘ente inutile’, poiché pur avendo mutato posizione giuridica ha mantenuto inalterato il suo ruolo .

Mario Pagella





NOTE

(1) Questo documento rappresenta uno degli episodi in cui lo Stato, prima “pubblicizzando” e poi abrogando la pubblicizzazione, si è impadronito della maggior parte delle risorse previdenziali, nate dal deposito e dalla contribuzione volontaria dei lavoratori. Questo processo, nato con la statalizzazione delle società di mutuo soccorso e previdenziali, ha mistificato l’intero sistema previdenziale ed assistenziale sanitario. Rubando a piene mani sui fondi contributivi, la classe politica poi si è messa a piagnucolare disperatamente sulle presunte spese che tale sistema previdenziale ed assistenziale sanitario comportava, impadronendosi ulteriormente con le svariate deformazioni (scambiate per “riforme”) di tale sistema, nato dal sacrificio dei lavoratori stessi. Qui si parla dell’Istituto “Giuseppe Kirner”, nato ad opera dei professori di Scuola media inferiore e superiore (ovvero, Secondaria di I e II grado), che venne prima sottoposto a diritto “pubblico”, poi, com’è ricordato dal Pagella, abrogato, venendo considerato quale “ente inutile”. Se anche lo fosse stato, rubare a man bassa tutti i suoi beni materiali, risultava un atto iniquo e dovuto allo spirito di preda di una classe politica indegna della storia italiana, con la complicità dei sindacati (si trattò, come scritto anni dopo, di 19.500.000.000 di beni mobili, di 15 miliardi in beni immobili, più crediti dovuti dallo Stato al “Kirner”).

(2) L’Ente Nazionale per l’Assistenza Magistrale è nato con gli stessi intenti del suddetto Istituto “Giuseppe Kirner”. Anch’esso nel 1978 ha rischiato di essere considerato “ente inutile”, e pertanto da abrogare. Fortunatamente, ciò non è avvenuto, e continua a svolgere la sua funzione meritoria, avendo mantenuto interamente o quasi i suoi beni, anche se appare assai pretestuosa la differenza di trattamento fra i due organismi, ambedue prima di iniziativa volontaria, e poi “pubblicizzati” .

(3) Neretto e sottolineatura sono miei, al fine di mettere in evidenza quanto lo Stato (o, a dir meglio, la classe politica e dirigente) ha depredato in merito ai beni previdenziali, come, nello stesso tempo, gli istituti sanitari, quali l’INAM, l’ENPAS, l’INADEL, ecc., per poi finire col “privatizzarli”, sempre e solo al fine di rubare le altrui ricchezze, create col lavoro ed il sacrificio di milioni di cittadini .
Manlio Tummolo





Distinti Saluti
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Per il Gruppo Promotore
dell’ UNIONE POLITICO-SOCIALE DEI CONTRIBUENTI
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prof. Manlio Tummolo






ERRORI E COLPE DELL’ OCCIDENTE
VERSO LA RUSSIA
( 1917 - 2008 )
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Bertiolo (UD), 1 - 7 settembre 2008

“..…
La prospettiva del crollo dell’Impero russo può piacere ai suoi nemici, ma il pensiero di quello che accadrebbe ai popoli del Caucaso se sparisse il potere sovietico è spaventoso. La guerra civile del Libano sembrerebbe al confronto una sommossa di poco conto.
Gli osseti combatterebbero tra loro, i ceceni combatterebbero i daghestani, gli armeni gli azeri e gli abcasi i georgiani. In ogni repubblica, le fazioni prorusse e antirusse si sgozzerebbero. Immaginate l’Armenia contemporaneamente sotto il fuoco della Turchia e dell’Azerbajdzan; l’Azerbajdzan minacciato d’invasione da parte dell’Iran e la Turchia che reclama parte della Georgia. Senza una forte influenza stabilizzante nella zona, il Caucaso si autodistruggerebbe in una guerra senza fine .
Ho chiesto a Magomet cosa pensasse del futuro. Ha sogghignato e mi ha detto: ‘All’epoca di mio padre, Shamil era considerato un eroe dai comunisti perché aveva combattuto contro il giogo imperialista dello zar per la libertà del suo popolo. Più tardi, quando ero ragazzo, le cose erano cambiate. Gli eroi erano le truppe zariste che avevano liberato i montanari dalla tirannide clericale di Shamil, tirapiedi degli imperialisti turchi e britannici. In un Paese in cui persino il passato è imprevedibile, solo Dio può conoscere il futuro’ “ .
Queste frasi furono scritte e riportate da Jon Thompson in un testo molto bello, e particolarmente ricco di materiale fotografico, del Touring Club in tempi, come si usa dire, “non sospetti” ma prossimi a ciò che veniva previsto sopra (Autori vari, “Unione Sovietica Oggi”, ed. Touring Club, trad. dal testo della National Geographic Society, S. Donato Milanese, 1990, pag. 129). Basti dunque questo ad introduzione del mio argomento fondamentale: l’Occidente (ovvero, tutti i Paesi fondatori della NATO e della U.E.) poco conosce del “continente” russo, sia per quanto ne riguarda la storia, anche recente (dal XVIII secolo ad oggi), sia per quel che riguarda la sua geografia antropica. Mi soffermerò soprattutto sui rapporti tra Occidente e Russia a partire dal 1917, anno in cui la stoltezza e la presunzione ci fecero perdere la prima fondamentale occasione di assistere alla nascita di una grande repubblica democratica retta da principi sociali avanzati (non necessariamente socialisti, comunisti o anarchici). La perdita di questa occasione è stata all’origine delle disgrazie capitate all’Europa nel primo dopoguerra e con la Seconda Guerra Mondiale, che molti storici considerano, per nulla a torto, soltanto la seconda fase di un’unica guerra mondiale <1> .
Nel febbraio-marzo del 1917, durante la prima guerra mondiale e la crisi generale in Russia, dopo ripetute sconfitte subite dalla Germania, il popolo insorge quasi spontaneamente, ottiene l’appoggio delle truppe di leva, mette fuori gioco la corte ed istituisce il primo Governo Provvisorio, sotto il principe L’vov. Ovvi motivi escludono di trattare qui tutti gli eventi, ma ci interessa rievocare la situazione politica: con la formazione dei Soviet (consigli spontanei e rivoluzionari, già apparsi con la Rivoluzione liberale del 1905), si dimostra trionfante non la proposta liberale dei costituzionali democratici (kadetj) di L’vov, Miljukov e Rodzjanko, ma il partito social-rivoluzionario, votato prevalentemente dai contadini, che ha alle sue origini il pensiero democratico e sociale, tendenzialmente anarchico (più correttamente dovrebbe dirsi pantocratico, o pantarchico <2>), di Aleksandr Herzen, rivoluzionario e teorico russo, fondatore dei narodnikj, amico di Mazzini (uno dei pochi, detto di passaggio, che ne riconobbe il senso di concretezza e la capacità organizzativa nelle sue “Memorie”). Il partito social-rivoluzionario si distinse presto in una destra (vicina ai liberal-democratici, ai menscevichi moderati ed ai trudovikj di Kerenskij), capitanata da Viktor Cernov, ed in una sinistra (più vicina ai menscevichi di sinistra di Trotzkij e ai bolscevichi, in quei mesi non troppo influenzati dalle teorie “pacifiste” di Lenin, che trionfarono solo in aprile con le sue famose “Tesi di aprile”).
Nel periodo febbraio-aprile appariva chiara la possibilità che la Russia, superata la fase immediata del rivolgimento, potesse consolidarsi e continuare la guerra con più forza ed energia. La cosa, tutto sommato, non piacque a nessuno, ma men che meno alla Germania, la quale, se si fosse trovata tra il fronte occidentale e quello orientale schiacciata da forze fresche (l’intervento americano era prossimo), non avrebbe potuto resistere più a lungo. I suoi alleati (Austria-Ungheria e Bulgaria) boccheggiavano fin dall’inizio della guerra; la Turchia, malgrado gli arcaismi delle sue istituzioni, aveva però uno spirito combattivo notevole che le consentiva di reggere l’urto anglo-francese ancora per altro tempo, ma non era in condizioni di poter sostenere la Germania in modo diretto. Ora, il Comando Supremo tedesco studiò un piano di natura politica che poco mancò che gli desse la vittoria. Si sapeva che il buon Vladimir Ulianov, detto Lenin, era sempre stato sfavorevole all’intervento russo e continuava ad esserlo, malgrado l’abbattimento di fatto dello zarismo, ma Lenin sarebbe stato innocuo finché fosse rimasto confinato in Svizzera. Dunque, al Comando Supremo germanico conveniva favorirne il ritorno in Russia: il suo prestigio, la sua astuzia, l’appoggio che avrebbe sicuramente avuto dal suo amico-rivale Lev Trotzkij, costituivano una miscela esplosiva veramente notevole. Per conseguenza, il Comando supremo appoggiò il suo ritorno, ma per impedire che esercitasse la sua influenza dissolvente anche in Germania, lo si imbarcò, con altri emigrati, su vagoni blindati e, attraverso la neutrale Svezia, allora confinante con l’Impero Russo (la Finlandia ne faceva parte), lo fece rimpatriare. Accolto da Tcheijdze con un discorso “difensista” (noi diremmo interventista; il termine russo di quel periodo implica che, per la Russia, la guerra era difensiva e non offensiva, con scopi rivoluzionari democratici), Lenin respinse tale accoglienza, continuò a proclamare la necessità della pace separata e invocò “Tutto il potere ai Soviet”, affascinando così ben presto, oltre alle classi proletarie povere ed ignoranti, i militari russi, soldati semplici, sottufficiali e parte dei giovani ufficiali. La pericolosità dell’uomo fu capita solo da Aleksandr Kerenskij, che lo conosceva molto bene, in quanto nati nel medesimo luogo ed ambedue allievi del padre di Kerenskij, preside della scuola che frequentavano. La lotta tra i due si fece sempre più aperta, ma quantunque il prestigio di Kerenskij restasse sempre alto, divenendo alla fine dopo l’affare Kornilov per un mese o poco più addirittura presidente della nuova Repubblica russa, tuttavia tra i soldati di leva, gli operai, alcuni sindacati, gli elementi di tendenza marxista o anarchica, perse sempre più terreno .
Abbiamo visto che il maggior interesse ad una crisi permanente del nuovo regime in Russia era la Germania, ed ovviamente l’Austria-Ungheria, la quale però a sua volta avrebbe preferito una pace separata, visto che non era in condizioni di reggere da sola l’urto russo e italiano. Ma neppure gli Stati occidentali vedevano di buon occhio la nascita di una Repubblica russa democratica e con un regime sociale avanzato su posizioni anticapitaliste. Era così interesse di Francia, Inghilterra, Italia e USA mantenere la Russia in condizioni di crisi perenne: quindi, scarso aiuto diretto, al di là di incontri di natura diplomatica, fondati su promesse e chiacchiere; sollecitare la Russia non solo ad una resistenza passiva (l’unica che in quel momento storico e nelle difficoltà si sarebbe potuta permettere, almeno contro la Germania, sempre potentissima ed efficiente), ma anche all’offensiva. In sostanza, fu per soddisfare la pressante richiesta degli Alleati d’occidente, che Kerenskij tentò quella che fu l’ultima offensiva, guidata da Brussilov, e che ottenne parziali successi, soprattutto contro l’Austria-Ungheria, ma respinta dai Tedeschi che poterono così avanzare in profondità <3>. Questo avvenne nel luglio 1917: non è certo un caso che, sicuramente per favorire il nemico, Lenin e Trotzkij scatenarono una prima rivolta che fu la prova per la “grande Rivoluzione d’Ottobre”. Kerenskij, passato come al solito succede a chi subisce sconfitte per cretino o troppo debole, malgrado tutto riuscì a reprimere il tentativo, tanto che il bravo Ulianov e l’intrepido Trotzkij dovettero sparire per qualche tempo (Lenin addirittura fino ad ottobre): la rivalutazione, in sede storiografica, della Rivoluzione di Febbraio, dei suoi Governi Provvisori, e dell’azione di Aleksandr Kerenskij è, invece, la necessaria premessa per una sorta di esame di coscienza dell’intero Occidente da un lato, della Russia dall’altro, per ripartire in modo coerente e politicamente giusto nella creazione di una Russia profondamente democratica e repubblicana (non una riedizione più o meno mascherata dello zarismo e del panslavismo ottocentesco, né altrettanto del regime staliniano).
Se la rivolta comunista fu espressione dell’appoggio tedesco, l’impresa di Kornilov nel settembre può essere considerata viceversa l’effetto della pressione occidentale, anche se questo è ovviamente intuitivo (i documenti sono ancora sepolti negli archivi dei servizi segreti occidentali del tempo, e completamente da disseppellire). Gli Stati occidentali speravano che, instaurando una dittatura militare sotto un energico condottiero, quale si vantava Kornilov, la Russia avrebbe fatto da schiacciasassi. Delle manovre occidentali c’è comunque una prova di fatto: quando la flotta russa uscì da Kronstadt impegnando quella tedesca, che le era superiore, le flotte britannica e francese, superiori di gran lunga a quella tedesca, ben si guardarono dall’appoggiare l’azione russa, in modo che subisse un’ulteriore umiliazione: non è un caso che i marinai di Kronstadt si schierassero allora e fino al 1920 (anno della loro celebre rivolta soffocata nel sangue da Trotzkij) con i bolscevichi .
Nella repressione del tentativo di Kornilov, secondo la solita prassi degli storiografi di regime, non appare chiaro quale fosse stata l’importanza delle guardie rosse comuniste, riarmate alla difesa di Pietrogrado. Certamente, in quel momento - e lo testimoniano i filmati dell’epoca - per la vittoria fu celebrato ancora una volta Kerenskij: fu quel che si usa dire in tali casi il suo “canto del cigno”. In ottobre (novembre per il calendario gregoriano, da noi vigente), si scatenò, questa volta ben più organizzata, l’insurrezione bolscevica che consentì ai comunisti la presa del potere in Russia, per nulla senza resistenza (vedi Mosca, ad esempio). Kerenskij, riuscito a fuggire, tentò una manovra con i cosacchi di Krasnov, il quale però, ormai prossimo ad una battaglia finale, lo tradì arrendendosi senza scontri significativi a Gatcina. Al grande avvocato, lottatore in difesa dei rivoluzionari russi durante lo zarismo, a sua volta perseguitato, ottimo ministro e capo di governo, l’unico o quasi ad avere idee chiare in merito al futuro russo, tradito e boicottato sempre da destra e da sinistra, da politici mediocri, invidiosi della sua potenza oratoria, dell’appoggio dei cittadini e del prestigio che allora possedeva, fu costretto alla fuga ed all’esilio (ma è pur da rilevare che, a distanza di tempo, nel famoso romanzo di Pasternak “Il dottor Zivago”, viene riconosciuto che il rublo “di Kerenskij” era ancora considerato una valuta apprezzata, almeno dagli stessi Russi <4>).
Ora, sarebbe facile osservare che gli Stati occidentali lasciarono che la repubblica democratica russa, nata dalla Rivoluzione di febbraio, affondasse fin dai primi mesi di vita perché in quel momento appariva un pericolo serio non solo per la Germania, ma per tutto il vecchio mondo liberal-plutocratico. Lo stesso non si può dire per il bolscevismo, perché, aggiungendo errore ancora più grave ad errore grave, sottovalutarono del tutto la capacità bolscevica, di uomini come Lenin e Trotzkij, e tutto l’apparato di partito, di reggere un urto spaventoso ed inimmaginabile come fu la guerra civile russa. L’Occidente sperava che il regime bolscevico sarebbe andato presto in sfacelo, ma come riconoscono seri storici, quali gli inglesi Chamberlin e Carr, i comunisti seppero approfittare dei mesi di pace offerti dai germanici tra il 1917 e il Trattato di Brest-Litowsk, fino alla prima rivolta social-rivoluzionaria nelle regioni asiatiche (importante l’azione degli ex-prigionieri cecoslovacchi, i quali avevano sostenuto la stessa rivoluzione in febbraio ma rifiutavano l’instaurazione di un regime di fatto dittatoriale e repressivo come fu già quello leninista) per organizzare la polizia politica (CEKA), per instaurare il terrore, per fondare dalle Guardie Rosse la prima Armata Rossa. Finita la guerra mondiale, gli Stati occidentali con il Giappone intervennero anche militarmente in appoggio delle armate bianche, le quali però non potevano avere l’appoggio delle popolazioni, in quanto di tendenza zarista e dunque impopolari. Per l’Occidente fu impossibile, per la guerra in corso, intervenire massicciamente prima, ma farlo dopo e dalla parte che meno attraeva la simpatia delle popolazioni e delle classi più povere, era più che inutile, del tutto controproducente.
Ad un’azione militare, resasi impossibile, sostituirono la politica del “cordone sanitario”, della “cortina di ferro”, e simili strategie, il cui unico effetto fu di rinnovare e rafforzare l’ormai antico timore russo dell’accerchiamento e della perdita dello sbocco al mare che, vedi caso, è alla base oggi delle reazioni russe all’espansione della NATO (leggi USA, perché gli altri Stati contano militarmente rispetto alla Russia come il celebre tre di coppe) .
Il periodo staliniano insegna, a chi vuol imparare, che anche nelle condizioni più difficili (e non vi è dubbio che, per la Russia, il periodo 1918 – 1939 fu ben più difficile di quanto possa esserlo stato il decennio 1989 – 1999), questa popolazione ha immense risorse morali e materiali, tali che, pur con sforzi e sacrifici giganteschi, può riassumere posizioni di grande potenza. La sottovalutazione di questo portò nel 1941 all’attacco della Germania che, quantunque con risultati immediati enormi ed apparentemente stupefacenti, costituì la caduta in un pozzo senza fondo, con la distruzione di riserve immense per la Germania e la vera motivazione del suo annientamento. Si pensi solo per un momento al fatto che, se il nazismo avesse concentrato il suo enorme potenziale bellico contro il solo Impero britannico (facciamo pure conto che il nostro apporto fosse stato, in proporzione, del tutto insussistente), particolarmente in Africa, quanto ben più difficilmente la Gran Bretagna avrebbe potuto resistere. Troppo si conciona dell’apporto americano nella Seconda Guerra Mondiale per pura piaggeria e per il culto del mito esperico <5>, ma troppo spesso si dimentica quanto vennero impegnate e logorate le forze germaniche all’est .
Durante gli anni della “guerra fredda” che, propriamente parlando sono costituiti dal periodo 1945 – 1956 (conclusosi con la repressione della rivolta ungherese e la conclusione della seconda guerra arabo-israeliana, durante la quale francesi ed inglesi furono bloccati dal comune veto russo-americano), guerra che, fra disgeli e ricongelamenti, arriva fino al 1985 con l’avvento di Gorbaciov, più che da sottovalutazioni, l’atteggiamento occidentale fu caricato di aspettative terroristiche: l’URSS fu vista esageratamente come una minacciosa potenza in espansione, soprattutto con misure di natura politica, ma anche con appoggio economico e militare alle più svariate forze anti-occidentali del cosiddetto Terzo Mondo, in Africa, in Asia e nel Sudamerica, mentre d’altro lato vennero sicuramente incoraggiati tentativi di rivolta, particolarmente negli Anni Cinquanta in Germania, in Polonia ed in Ungheria, ma poi abbandonati ovviamente a se stessi nella repressione esercitata dall’URSS, per il timore di una guerra estesa, anche nucleare. La disfatta americana nel Vietnam e quella successiva dell’URSS in Afghanistan dimostrarono che le due “super-potenze” non potevano avere il seguito che speravano, perché troppo miranti ai propri interessi, piuttosto che alle esigenze verbalmente e propagandisticamente dichiarate .
Il cupo duello si concluse con la disfatta sovietica, prevista con molta precisione dalle forze interne di opposizione dell’URSS (i cosiddetti “dissidenti”, termine vago perché comprendeva antimarxisti come Solgenitsjn e marxisti riformisti, tendenzialmente socialdemocratici). Pensiamo all’autore del saggio “Durerà l’URSS fino al 1984 ?”, Andrei Amalrik che già nel 1969 sbagliò di soli cinque anni il suo calcolo, una previsione che, in termini storici, potrebbe dirsi di esattezza matematica, e che però gli costò a suo tempo l’esilio. Come apparve negli anni successivi, in Russia sparirono totalmente le forze di sinistra democratica, probabilmente, non solo fisicamente inghiottite nei gulag e nei campi di concentramento e di morte dell’età di Stalin, oppure costrette all’esilio, ed ivi dissoltesi progressivamente per inedia (vedi lo stesso Kerenskij, esule prima in Francia poi negli Stati Uniti, dove insegnò all’Università di Stanford e collaborò con Browder alla raccolta in inglese della documentazione riguardante il Governo Provvisorio da febbraio ad ottobre 1917, ma che non ricevette nessun riconoscimento dalla storiografia e dalla politica internazionale, né allora né poi: non risulta esistere nessuna traduzione in italiano di questa raccolta, segno dell’arretratezza dei nostri studi sulla Rivoluzione russa tra il febbraio e l’ottobre 1917), senza lasciare eredi che potessero riprendere l’antico progetto di una Russia democratica, con un regime sociale di tipo avanzato .
Le conclusioni dell’opinione pubblica mondiale, nella stessa Russia ed in Cina, oltre che ovviamente nelle Potenze plutocratiche furono quelle che il capitalismo puro, la società liberista, l’economia di mercato, ed altre facezie, fossero riusciti a piegare il socialismo anche nelle forme moderate ed “umane” di Gorbaciov: per non parlare di quegli ingenui che, particolarmente in Italia e forse in Polonia, sostennero che ad abbattere il gigante sovietico fosse stata la santa azione di Giovanni Paolo II (con tutto il rispetto per un uomo che dimostrò il proprio coraggio fino alla fine, è illusorio pensare che il Patto di Varsavia e l’URSS crollassero per le sue prediche, preghiere ed azioni diplomatiche varie) .
L’URSS era crollata da sé, tanto è vero che un uomo come Amalrik, ed altri dissidenti, lo avevano capito, intuito, e non solo sperato: in primo luogo, l’assenza di libertà morale e politica, la quale assenza, se non è corroborata come sotto Lenin e Stalin da un selvaggio sistema spionistico e terroristico, da una violenta repressione poliziesca e militare, non può ovviamente reggere a lungo. Il disgelo ed il progressivo ammorbidimento della politica interna sovietica, malgrado nuovi risvegli repressivi, convinsero le popolazioni che il periodo peggiore stava terminando. Gorbaciov, che ha avuto il grandissimo merito di rendere l’URSS più gradita all’Occidente e tendente alla democrazia ed alla libertà, mise tuttavia in moto quella valanga che avrebbe travolto lui e le istituzioni comuniste. Se rileggiamo le parole che ho poste ad introduzione di Thompson, in quegli anni (si deve ricordare che, se l’anno di stampa in inglese è del 1989 e quella in italiano del 1990, per un’opera del genere si devono calcolare gli anni di stesura, almeno almeno due, ovvero 1987-88), ci fanno capire che la tempesta era in arrivo ed il vento cominciava a soffiare fortemente, sebbene tutto sommato rispetto alle previsioni del Thompson le cose sono state meno violente finora, ma proprio perché il gigante russo è riuscito, non senza difficoltà a tenere la situazione sotto controllo, pur nella crisi interna. Dunque, non tanto il confronto economico o militare, quanto proprio la condizione politica ha prodotto il cedimento interno dell’URSS e la sua disgregazione .
Ora, proprio questo non è stato capito dall’Occidente: si è erroneamente ritenuto che il crollo sovietico e dei suoi subordinati sia stato dovuto a ragioni economiche, ad una presunta superiorità dell’economia di mercato pura (liberista e capitalista) rispetto all’economia socialista, al socialismo di Stato, allo statalismo, trascurando il non piccolo dettaglio che nel 1929 ed anni seguenti era stato proprio il capitalismo puro a dimostrare tutta la sua inefficienza. Storicamente parlando ed al di fuori da ogni stolta propaganda, l’Occidente si salvò invece grazie al concetto keynesiano di economia mista, di intervento razionale e ragionevole dello Stato nell’economia più con le leggi che con un’azione diretta, nel miglioramento generale di vita nelle classi sociali più povere, soprattutto nell’America e nell’Europa occidentale: situazione di benessere economico (welfare state) che aveva ridotto ogni possibilità di estremismo anarchico o comunista nelle rivendicazioni sociali, a parte le celebri frange come le Brigate Rosse o la Rote Armee Fraktion che, quantunque rumorose e violente, agirono alla fine in modo del tutto controproducente <6>, fino a dissolversi completamente col “pentitismo” e simili posizioni di comodo che, fruttando ai possibili condannati sconti colossali, disgregarono queste organizzazioni, per altro ben fornite di denaro e di armi, ma poco di capacità rivoluzionarie politiche o militari reali ed efficienti. Tornando al crollo dell’URSS, un contributo semmai più significativo fu dato dal suo intervento, massiccio ma comunque fallimentare, in Afghanistan, Paese che ora sta creando enormi problemi, e di più ne creerà nel prossimo futuro, agli USA e ai loro incerti Alleati <7>, i quali si trovano lì giuridicamente per consolidamento della pace, di fatto per sostenere gli obiettivi di conquista e di egemonia degli USA .
Non si sa quando, ma un giorno gli archivi ci spiegheranno, in maniera più chiara, che cosa sia successo nell’ultima fase della presidenza di Gorbaciov e da chi fosse manovrato il tentativo di colpo di stato, poi sventato dalla reazione popolare in quel momento guidata da Eltsin, anche se le versioni dei fatti d’allora vanno presi in modo assai dubitativo. Quasi a conferma della teoria vichiana dei corsi e ricorsi, la Russia si trovò in una condizione che presenta molte analogie con quella del 1917, anche se obiettivamente assai meno difficile (la Russia non era colpita nel suo territorio, come nel 1917, dalle armate della Triplice Alleanza, anche se scontava una guerra fallimentare ed il disfacimento del Patto di Varsavia): la soluzione logica sarebbe stata quella di facilitare il passaggio da un sistema monopartitico ed ancora dittatoriale, malgrado l’allentamento del potere assoluto, con una struttura sociale retta da un’economia di Stato, ad un sistema misto che portasse la Russia a condizioni economiche nuove, ma senza inutili traumi: liberalizzare le cooperative, ridurre l’intervento dello Stato da proprietario a semplice regolatore delle attività economiche, ad istituire più partiti che riprendessero le antiche tradizioni del costituzionalismo democratico e del socialismo rivoluzionario (non marxista, come si è detto), del socialismo democratico (marxismo moderato e pluralista), e così via .
L’Occidente, ed in modo particolare gli USA, come le grandi istituzioni finanziarie rette dalla sua plutocrazia (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazione, G 7, ecc.), vollero spingere la Russia nel baratro del radicale ritorno ad una fase che la Russia aveva conosciuto prima della Guerra Mondiale del 1914: in sostanza, come già negli altri Paesi ex-comunisti, allo choc subìto negli anni di dittatura comunista si fece seguito con un choc non inferiore col ritorno ad un capitalismo becero ed arcaico, di tipo settecentesco – ottocentesco. C’è da meravigliarsi che sorgesse addirittura una “mafia” russa, ovvero una criminalità organizzata, quando si aizzava un popolo ad arricchirsi e basta (come se si potesse arricchire improvvisamente senza imbroglio e sporchi traffici, anche di carne umana, con le rinnovate “Voelkerwanderungen” - migrazioni di popoli - che la nostra tradizione storiografica qualifica come “invasioni barbariche”, inventando esigenze fino ad allora insussistenti, come quella delle badanti ucraine e degli allevatori-mungitori indiani di bovini, dei muratori slavi, e simili facezie, che piacciono tanto ai plutocrati, agli alti ecclesiastici, ai marxisti decaduti al punto da sostenere il ritorno a forme schiavistiche, a sindacalisti la cui unica funzione è quella del cuscino di ammorbidimento delle contrapposizioni sociali, ed infine alla criminalità organizzata che certo non si perita di giungere perfino al commercio di organi umani, strappati a bambini, orrori inimmaginabili, se non in un ripugnante stadio umano di auto-distruzione della specie) ? Non ci si arricchisce dall’oggi al domani, e neppure di qui a dieci anni, senza truffare, imbrogliare, derubare, sfruttare .
La colpa principale dell’Occidente, oltre alla barzelletta allora corrente, e poi smentita largamente dai fatti, del nippo-americano Francis Fukuyama della fine della storia (sic !), fu quella di essersi lasciato sfuggire, per l’ambiziosa avidità dei suoi dirigenti politici ed economico-finanziari, l’ultima grande occasione di fare, invece, tutti insieme un nuovo grande passo nel progresso umano: rafforzare la democrazia, consolidando un’economia mista con sempre crescente sviluppo della solidarietà tra individui e popoli, riducendo drasticamente le cause di guerra interna ed esterna; non distruggere anche le poche cose buone, certi principi, più teorici che pratici a dire il vero, dell’ideologia sociale e socialista, per ritornare alle povere fisime liberiste di Adam Smith e di Quesnay ; facilitare nei Paesi ex-comunisti ed ex-sovietici l’instaurazione di una democrazia vera, che è quella dove il popolo governa grazie ad una consapevolezza civile e politica generalizzata ed approfondita, dove il popolo, non solo è costituito in partiti politici diversi a cui affidare il governo concreto delle cose, ma dove è capace di esercitare un reale controllo della situazione, delle proposte e della loro esecuzione, dove è in grado di togliere pacificamente di mezzo, senza pertanto azioni violente, chi non dimostra onestà e competenza amministrativa .
Nulla di tutto questo venne fatto: anzi si vollero dividere alcuni Stati dell’Europa centrale (Cecoslovacchia e, soprattutto, Jugoslavia), che erano invece essenziali all’equilibrio geopolitico del continente, senza badare alle conseguenze, talvolta terribili, di guerra civile che ne sarebbero derivate: anzi, tutto questo sfaldamento fu visto positivamente come l’occasione per importare nuovi candidati ad una rinnovata schiavitù sociale ed economica. Si favorì, nella maniera più cretina possibile la nascita di un fondamentalismo musulmano, quando ad ogni serio storico delle religioni è noto che l’Islamismo in sé è la più laica e ragionevole delle tre grandi religioni positive (dette “del Libro”) <8>. Si umiliò la Russia ampliando la NATO (la cui sigla indica l’estensione e competenza all’Europa occidentale ed al nord-Atlantico, non certo a tutto il mondo, aizzandole contro i Paesi già ad essa sottoposti, passati così senza interruzione dalla sudditanza all’URSS a quella verso gli USA), accerchiandola con una morsa di fuoco costituita da basi militari e missilistiche, mettendola in condizioni di soggezione e quasi ridicolizzandola, il che non poteva a lungo essere sopportato dal Paese che, a tutt’oggi, è il più esteso ed il più ricco di risorse naturali .
Personalmente, io non apprezzo il malcelato ritorno a denominazione e simbolismi di derivazione zarista: fermamente repubblicano, ritengo questa istituzione, quando sia non solo giuridicamente vera ma effettivamente sussistente, l’unica degna di popoli civili (repubblica non è che il termine latino che l’Ellade denominò, appunto, democrazia: cosa pubblica e governo di popolo sono coincidenti, sul piano ideologico ed etimologico). Personalmente ho sempre auspicato che la Russia, ancora quando esisteva l’URSS, come scrissi in una relazione del 1977 per il Congresso di Napoli dell’Associazione Mazziniana Italiana, nonché in altre occasioni, riprendesse la marcia che la pretesa “Rivoluzione d’Ottobre” (in realtà, fortunato colpo di stato che ripristinò in Russia forme assolutistiche e tiranniche) aveva interrotto bruscamente, con violenze ed inganni. Auspico dunque una Russia puramente europea, che consenta finalmente di istituire, dall’Atlantico agli Urali, un’unica grande Repubblica Federale Europea, che costituisca il prodromo dell’unità mondiale dei popoli nell’intero pianeta, ma non posso nascondermi il fatto che da tutto ciò non solo eravamo lontani nel 1990, ma che oggi ce ne siamo allontanati sempre più. Quanto alla situazione caucasica, da cui siamo partiti, è certo che se quei popoli non supereranno le loro barriere culturali e religiose, unendosi in una propria federazione, non potranno certo illudersi di superare la situazione con l’aiuto americano.
La pretesa di uno Stato di “americanizzare” non solo il continente nel quale gli USA si trovano (secondo la dottrina Monroe d’inizio XIX secolo), ma il mondo intero, aggiogandolo a logiche perverse di un materialismo tecnocratico e tecnolatrico, sta conducendo l’umanità a reazioni che potrebbero essere spaventose fino ad una guerra planetaria, anche atomica, il che, tenuto conto ormai dello scarso livello di progresso nella solidarietà della specie verso se stessa (non si possono scambiare gli slogans per serie ed irrevocabili convinzioni, ma solo volgari, plebee, espressioni di moda), potrebbe comportare la distruzione se non dell’intera umanità della sua parte cosiddetta tecnologizzata e “progredita”, che ormai non può sopravvivere senza macchinari, strutture tecnologiche, enormi fonti di energia .
All’uomo dunque la scelta che già Pico della Mirandola nel “De Hominis Dignitate” pose in modo irrevocabile: o innalzarsi verso il cielo, verso lo spirito, e dunque progredire; o abbassarsi alla pura materia, rotolarsi nel fango del proprio egoismo e della comodità, e dunque sparire dal pianeta. L’uomo cessi di credere di essere indispensabile ed ineliminabile, come individuo e come specie: egli non è che un piccolo atomo pensante (quando e se pensa…) nell’Universo. In un qualunque momento, la Terra ed ancor più l’Universo potrebbero decidere di farne a meno, se non si dimostrerà all’altezza della missione affidatagli .

NOTE :
<1> Il fascismo ed il nazismo, nonché i vari movimenti similari di destra, nacquero o, almeno, si rafforzarono proprio sulla base del terrore che il comunismo sovietico ispirò alle classi ricche e benestanti dell’intero pianeta. Il capitalismo sentì come esigenza difensiva quella di impiegare gli ex-combattenti, delusi dai risultati della guerra e minacciati dall’azione di sinistra, come imponente ed efficace forza d’urto contro le frange violente del marxismo e dell’anarchismo. E’ dunque fortemente probabile che, senza il solito “spettro del comunismo”, neppure i movimenti autoritari di estrema destra avrebbero avuto l’ampio sviluppo che poterono avere. Un’Europa, senza l’URSS, sarebbe stata priva anche delle dittature di estrema destra .
<2> L’anarchia è il rifiuto, l’assenza di ogni governo: “nessun governo - il governo di nessuno” ; la pantocrazia o pantarchia, detta dal celebre Aldo Capitini ”omnicrazia”, presuppone al contrario un governo di tutti, il che si identifica con una unanimità almeno tendenziale, praticamente altrettanto irrealizzabile dell’anarchia .
<3> L’offensiva tentata da Kerenskij, non essendo riuscita, fu considerata un assoluto disastro, questo per la regola tipica degli storiografi dei vittoriosi, “Guai ai Vinti ! - Chi perde ha sempre torto”. Se si sapesse in partenza chi vince e chi perde, nessuno si muoverebbe mai. Per lo storico, fornito di dati, è facile giudicare la situazione; non così per chi si trova nel mezzo della battaglia. Comunque sia, come lo stesso Kerenskij ormai vecchio nel 1967 in un’intervista televisiva disse a Ruggero Orlando, la sua offensiva alleggerì la pressione sul fronte occidentale, particolarmente sull’Italia, e fu infatti dal momento in cui la Russia si era ritirata con un armistizio, che Tedeschi ed Austro-Ungarici poterono raschiare il fondo del loro barile per scatenare l’offensiva di Caporetto e le ultime sul fronte francese. E’ evidente così che l’offensiva di Kerenskij non fu poi così deprecabile nel quadro generale: certo, per la Russia segnò l’ultimo imponente sforzo del vecchio Esercito, provocandone col fallimento l’avvio alla disgregazione. Ancora va ricordato che l’Esercito germanico ed i suoi alleati penetrarono nella Russia in profondità (Bielorussia ed Ucraina) solo con Brest-Litowsk, occupando circa 2/3 del territorio che i Tedeschi conquistarono tra il 1941/ 42 .
<4> Kerenskij non aveva dietro di sé un grosso partito di “massa”, ma il piccolo gruppo dei trudovikj (ovvero, laburisti), una formazione non marxista, ma socialmente progressista. Godeva inizialmente di largo prestigio tra i socialisti rivoluzionari, i quali, ancora nel 1918 con le elezione dell’Assemblea Costituente (soffocata con la forza da Lenin, che per qualcuno rappresenta un “democratico”), avevano una larga maggioranza che, aggiunta ai menscevichi, costituivano la maggioranza assoluta. I bolscevichi, in elezioni regolari, furono sempre minoranza, riuscendo a trionfare però nei Soviet, la cui legittimità democratica e numerica era del tutto inconsistente .
<5> Chiamo “mito esperico” l’idea che l’occidente, come punto in cui il Sole tramonta, sia sede di un mondo meraviglioso: Atlantide, Esperia (Italia, prima, Spagna poi, per i navigatori e coloni ellenici), le Isole Fortunate, Eldorado e infine gli USA rappresentano tappe di questo mito, che nasce tra popoli nomadi, i quali seguono il moto apparente del Sole nel timore semicosciente che esso non appaia più. L’estremo occidente potè a lungo essere motivo di paura, considerando l’Oceano Atlantico come invalicabile (mito di Ulisse), oltre il quale però si trova una terra di perfezione, di felicità assoluta Ancora oggi gli USA, anche per i cosiddetti anti-americani, rappresentano un modello ineguagliabile di perfezione: essi vengono imitati in tutto; per qualunque cosa viene imposta la loro cultura tecnomane e tecnolatrica, sostanzialmente materialistica ed irrazionalistica, e proprio per questo irrazionalismo di fondo anche fanaticamente religiosa nelle sue più varie forme (lo stesso materialismo e tecnologismo possono essere fanatici, non solo la religiosità o lo spiritualismo) .
<6> Il caso di Aldo Moro, qui in Italia, è significativo: esso provocò in tutti disgusto per l’inutile violenza e rafforzò la Democrazia Cristiana, il cui prestigio in quegli anni era piuttosto basso, dopo la crisi economica seguita alla crisi petrolifera. Se Moro fosse stato rilasciato, le cose forse avrebbero avuto esiti diversi: l’ottusità di coloro che ritengono di poter vincere solo con la forza, non consente loro alcun ragionamento diverso e più profondo .
<7> La strategia militare degli USA è fortemente condizionata dalla Seconda Guerra Mondiale: il loro dominio dei cieli pressoché assoluto, e la vittoria conseguita, li convinsero che questa strategia aerea è fondamentale per la conquista del territorio, dimenticando due cose fondamentali: l’aviazione serve dove c’è da bombardare qualcosa; ma dove non c’è, soltanto sul terreno si decidono le guerre. Un territorio fortemente urbanizzato, come l’Europa, è quindi molto più sensibile ai bombardamenti ed alle distruzioni di installazioni civili e militari: così è relativamente facile piegarlo se non ha mezzi di contrasto e di resistenza antiaerea adeguati. Ma se un territorio, poco abitato e poco urbanizzato, povero e senza installazioni determinanti alla vita quotidiana, i bombardamenti non solo sono inutili, ma controproducenti. Gli Americani, sempre favorevoli al metodo del big stick, sono anch’essi fortemente ottusi ed incapaci di liberarsi di una tale dottrina. L’Afghanistan ha un territorio, non solo montagnoso ma con catene elevate, esteso per 652.000 e più kmq; l’Irak ha un territorio in gran parte desertico, Mesopotamia a parte, di 434.000 e più kmq: per tenere a bada il primo occorrerebbero almeno due milioni di uomini, fortemente meccanizzati ed autotrasportabili, con mezzi adatti a terreno accidentato e montagnoso; col secondo non meno di un milione, e con mezzi di terra altrettanto idonei al terreno: gli USA non sono assolutamente in grado, neppure con la NATO, di agire come necessario con queste forze. Per cui, finiranno per ritirarsi, come i Sovietici, con le pive nel sacco…
<8> Il primo movimento fanatico di tipo islamico nasce negli anni Sessanta, vedi caso !, proprio in America, con i Musulmani Neri, le Pantere Nere, e il movimento detto “Potere Nero” (Black Power). Non mi risulta che, dai tempi del Vecchio della Montagna (siamo in pieno Medioevo) e dai suoi hashishyn (assuntori di hashish, da cui assassini), fossero mai esistiti movimenti estremisti e fanatici, fino alla morte, di Islamici. Riguardo alla figura di Osama Bin Laden, sulla cui reale esistenza storica nutro enormi dubbi e del suo movimento che non si sa mai come scrivere o come pronunciare “Al Kaida” (segno che tutta la storia è musicata con spartiti americani), c’è una curiosissima coincidenza con la figura di Capitan Nemo, principe indiano ribelle ai Britannici che semina il terrore in tutti i mari col suo micidiale sommergibile “Nautilus”, nel romanzo, non proprio per ragazzi, “L’Isola Misteriosa” di Jules Verne: quando il fantomatico personaggio si fa finalmente conoscere dai naufraghi sfuggiti (altra strana coincidenza !) alla Guerra di Secessione, egli risponde alle accuse, che essi gli fanno, di essere un assassino ed un pirata, con una frase che ricorda moltissimo quella di Bin Laden dopo il massacro delle Due Torri, osservando che egli non faceva altro che parificare i conti dei massacri esercitati dai Britannici in India e sulla sua stessa famiglia. Si può dir tranquillamente che il signor Osama Bin Laden (la cui arabicità del nome è assai sospetta: infatti gli Arabi usano il patronimico “ibn” e non “bin”, che sembra la pronuncia inglese del termine ebraico “ben” , figlio di…) è come il “Capitano Nemo” dei nostri tempi .

Manlio Tummolo







Pozzecco di Bertiolo, 7 luglio 2009

DAL VENETICO AL VENETO E LADINO


“…………..
Ma i VENETI approdati dall’Asia si erano annidati nei porti della Laguna. Avevano lingua propria (sermone diverso utentes. Polib.); e questa, nel trasmutarsi in dialetto latino, conservò quella minima varietà e somma dolcezza d’articolazioni, per cui fa quasi un’isola linguistica fra gli aspri dialetti che si parlano lungo il semicerchio delle Alpi. Il che palesa assurda l’opinione che i Veneti fossero un ramo divelto dall’arbore slavo (ein abgerissener Zweig des grossen Volkstammes der Slawen. Mannert); poiché la lingua slava, al contrario, spiega in tutte le sue favelle la massima attitudine a moltiplicare e variare i suoni orali, sicché si potrebbe ben appellarla, fra tutte, la nazione pronunciatrice…” [Carlo Cattaneo, “Notizie Naturali e Civili su la Lombardia”, 1844, Parte Prima, paragrafo VIII - in ed. BUR (Milano, 1992 - “Scritti su Milano e la Lombardia”] .
Da questa breve citazione si nota, come già nella prima metà dell’Ottocento, era stata avanzata la teoria, che sembrerebbe d’impronta tedesca (o austriaca ?), dell’origine slava (ma non slovena) dei Veneti o Paleoveneti o Protoveneti. Tale teoria viene rigettata dal Cattaneo sulla base di un argomento linguistico. Egli, poco prima, aveva anche sottolineato la presenza di un altro popolo, quello degli Euganei (“ben nati”), il cui nome resta ai celebri colli d’origine vulcanica. L’antica leggenda vuole che i Venetici non fossero che profughi troiani guidati da Antenore attraverso la penisola balcanica e condotti in Italia. Vera o falsa che sia questa leggenda, sta di fatto che i Venetici furono fedeli alleati di Roma nelle guerre contro i Celti cisalpini, dopo esserlo stato degli Etruschi. Non è difficile dedurre che questa leggenda di un’origine comune, come ben dimostrato da Marta Sordi in un suo ottimo saggio, fu trasmessa sia ai Romani, sia ai Venetici proprio dagli Etruschi, nei cui miti e nella cui tradizione culturale si trova la radice comune di quell’epica che venne poi narrata da Virgilio. In effetti, della lingua dei popoli italici preromani non abbiamo grandissimi documenti: il più riguarda iscrizioni sulle tombe o su oggetti d’artigianato. Le frasi più comuni riguardano infatti il marchio o firma di “produzione” per il vasellame o per le statuette, con la firma dell’autore (es.: mi costruì Tizio per Caio o per Sempronia), e col nome del defunto, dei suoi parenti e della funzione pubblica che il defunto svolgeva (es.: qui giace Gianpiero Giampieri, marito di Clotilde e già propretore di Padova o di Opitergium ; tale tomba posero i figli diletti Bernardina e Francesco). In tal modo, la traduzione è relativamente facile, ma insegna poco, trattandosi di formule più o meno fisse. Una maggiore difficoltà si ha dal fatto che i Venetici scrivevano con scrittura continua, senza separare le parole, ovvero come se noi scrivessimo così: stocercandodidecifrarelalinguaveneticamanonciriescoperchénonesisteundizionarolatinovenetico .
Ora, sapendo la lingua è facile separare le parole, ma essendo privo del dizionario (poniamo di essere tedeschi o indiani), devo scoprire prima di tutto dove finisce ogni singola parola, per poi decifrare il tutto. Non conoscendo le parole, né avendo un dizionario comparato con una lingua già conosciuta, la lingua è in gran parte indecifrabile salvo brevi iscrizioni con frasi fisse. E chi dice di poterla decifrare, dice cose ridicole, come ridicolo è pretendere di capire una lingua di 3000 – 2500 anni fa con il dizionario di una lingua moderna, qualunque essa sia, tanto più in quanto i passaggi di popoli, la loro permanenza per lungo tempo, le reciproche influenze hanno lasciato un segno enorme. Qualunque pretesa di collegare il venetico ad una lingua, anche se presente sul luogo, è velleitaria. Facciamo un altro esempio: se si pretendesse di spiegare l’etrusco sulla base di un attuale dialetto o lingua dell’Italia centrale, falliremmo sicuramente. C’è però qualcosa che ce lo ricorda, e tutti i linguisti lo segnalato la “c” dura toscana aspirata sarebbe un residuo dell’antico etrusco, e con esso l’accento un po’ cantilenante; la “c” dolce, che viceversa tende alla “sc” anch’essa dolce. E’ probabile che questi siano i pochi segni, oltre a singole parole e nomi di cariche assorbiti dal latino (vedi “phersu” - maschera, personaggio, vittima; oppure il suffisso latinizzato in –ina o –enna, relativamente a nomi di persona o di luogo). Possiamo allora supporre che certa dolcezza, segnalata dal Cattaneo, nell’accento veneto sia eredità dell’antico venetico. Secondo Gian Battista Pellegrini, anche la desinenza nei cognomi in –igo sarebbe eredità del patronimico venetico –ikos. Altri segni potrebbero trovarsi nella toponomastica, ma questa spesso confonde le idee, se se ne abusa. E qui si viene al problema generale: già nel XIX secolo, era stata individuata, nella comparazione tra radici e desinenze, un’unica origine dei linguaggi europei. Secondo tale teoria, esistevano popoli detti “Indoarii” o “Indoeuropei” (la denominazione trae a sua volta giustificazione dalla narrazione biblica, sul figlio di Noè Jafet o Giapeto, da cui deriverebbe tale gruppo), parlanti una medesima lingua. Essi poi si divisero in Indoeuropei o Arii orientali (Indiani, Persiani, Ittiti, ecc.) e Indoeuropei occidentali (Greco-Italici, Celti, Germani). Tra questi due gruppi, popoli prevalentemente nomadi come Sarmati a nord e Sciti a sud dell’Europa orientale o Russia, costituiscono la fascia intermedia tra il gruppo occidentale e quello orientale. Fino almeno a S. Girolamo, di Slavi non si parla: egli elenca varie tribù e popolazioni in movimento nella fase di maggior migrazione, ma non cita mai gli Slavi (se non forse indirettamente come Sarmati). Il termine appare tra i Bizantini nella forma Sklaviniai, variamente ricalcato in Sclaveni o in Sloveni, senza che questo indichi assolutamente alcuna coincidenza con gli Sloveni attuali. Si tratta di popolazioni che si infiltrano disordinatamente, spesso in fuga da Unni, Avari ed Ungari (di stirpe mongolica), che li cacciano o li riducono in schiavitù, e che vengono a contatto con l’Impero ormai bizantino (più che gli Sloveni, vi fanno parte gli antenati dei Bulgari, Serbi e Macedoni attuali). L’etimologia è notoriamente controversa, e non mi pare qui il caso di metterla in discussione .
Torniamo ai nostri Venetici: quando sotto Augusto si costituì la X Regio Venetia et Histria, il nord-est doveva essere caratterizzato da diverse popolazioni parlanti linguaggi diversi: Euganei, nella zona padovana; Veneti fino all’attuale Friuli Occidentale o anche oltre il Tagliamento; Celti Carni nella zona alpina e nell’est della regione Friuli – V.G.; Histri, affini ai Veneti; Liburni, un misto fra Histri ed Illiri, lungo la costa settentrionale ed orientale adriatica (attuale Lika); Illiri, più o meno estesi all’intera Jugoslavia ed Albania. Si ha una rapida romanizzazione linguistica: andrebbe però precisato che, come noi, se dovessimo imparare una lingua straniera senza conoscere la pronuncia delle parole solo sulla base di scritti, la adatteremmo alla nostra, modificando così le parole: ad es., la parola Kaiser deriva sicuramente dal Caesar romano, ma la pretesa germanica di dire che così la pronunciavano i Romani è alquanto illusoria: siccome non esistono riproduzioni sonore, è impossibile dire, come Cesare o Cicerone pronunciassero i propri nomi, ma è ragionevole che li pronunciassero come noi, o meglio come gli attuali toscani, come una “sc”, senza far sentire la “a” del dittongo. Tuttavia, nel linguaggio parlato dalle popolazioni con sostrato diverso, è abbastanza probabile che la pronuncia fosse diversa, e che le popolazioni germaniche tendessero a pronunciare “Caesar” come “Kaiser”, fin dall’antico .
Questo processo di trasformazione della lingua latina parlata, non necessariamente scritta, si accentua con le migrazioni dei popoli germanici. Se è pur vero che in Italia, come sostenne lo stesso Cattaneo, non si ha una decisiva influenza germanica nel linguaggio, il che, a suo parere, prova la relativa scarsezza delle nuove popolazioni (dagli Eruli ai Longobardi, agli Avari, ai primi Slavi, ecc.), certamente tale trasformazione continua: il che dimostra l’assurdità di una continuità tra l’antico venetico e l’attuale sloveno, senza bisogni di grandi argomenti e prove testuali. Così si passa dal latino parlato, ormai irriconoscibile, ad una serie di linguaggi protoitaliani (futuri dialetti). Con l’invasione longobarda si ha la disgregazione dell’Italia geopolitica. Se, citando sempre il Friuli-V.G., guardiamo una cartina dell’occupazione longobardo-bizantina e quella dei dialetti attuali, vediamo che grosso modo corrisponde. La costa (da Caorle a Grado, e poi Duino-Trieste, l’Istria, ecc.) rimane per lungo tempo ai Bizantini e, senza pause, passa poi ai Veneziani; l’interno viene occupato da Longobardi prima, Franchi e Germanici poi. E’ in questo periodo che si separa il latino post-venetico in un dialetto proto-veneto e in un dialetto proto-ladino e proto-friulano; come del resto avviene nell’Emilia-Romagna, nelle Marche e nella Liguria, per i rispettivi linguaggi. La caratteristica dei linguaggi interni è quella di veder prevalere un accento tronco con conservazione della consonante; in quelli costieri lo stesso accento tronco, con caduta della consonante finale (solo generalmente, è ovvio). Si modifica dovunque e si semplifica la sintassi. Al nord, ad es., prevale il passato prossimo, al sud il passato remoto. Quando i grandi gruppi di dialetti ed idiomi italiani si sono costituiti, Dante Alighieri comincia a studiarli per primo nel loro complesso, nel “De Vulgari Eloquentia” per trovare quel denominatore comune che dovrebbe essere degno di costituire la nuova lingua letteraria italiana, che finirà per essere semplicemente la sua lingua letteraria, un toscano più o meno adattato alla comprensione generale. Non va ignorato intanto, a confutazione di coloro che sostengono che gli Italiani non si capivano fino all’unità politica, perché una cosa è saper parlare una lingua, altro è il comprenderla. Se poesie, poemi e saggi in italiano sono letti dappertutto, anche se senza forme e regole assolute, ciò non toglie che l’italiano letterario è fondamentalmente compreso da tutti già ai tempi di Dante, altrimenti tutto il suo discorso sarebbe stato assurdo ed inconsistente. E gli stessi Petrarca e Boccaccio o gli scrittori addirittura precedenti sarebbero stati illeggibili ed incomprensibili fuori del loro ambito linguistico. E’ utile leggere ciò che Dante afferma del veneto e del friulano, anche perché negli esempi da lui citati si nota ancora una certa differenza tra veneto veneziano e veneto interno :
“… E vi è un altro volgare… tanto irsuto per vocaboli e suoni, che per sua rozza asprezza, quando le donne lo parlano, non solo escon fuori dai loro termini naturali, ma addirittura ti chiederesti se non siano maschi. Questo è il volgare di tutti quelli che dicono magara, ossia Bresciani, Veronesi e Vicentini, senza dimenticare i Padovani, i quali bruttamente spezzano tutti i participi in tus e i sostantivi in tas, come in mercò e bontè. Insieme a loro metto i Trevigiani, che, similmente ai Bresciani [è pur curioso che faccia questi accostamenti, pensando che nel XIV secolo Venezia era ben lungi dall’aver conquistato quei territori che passarono sotto la repubblica dopo 100 anni dalla morte di Dante] e ai loro vicini, pronunciano f la v [come ancora oggi i Tedeschi], quando troncano la vocale finale, come in nof e vif: cosa riprovevole come grave barbarismo .
Neanche i Veneziani si reputano degni dell’onore di quel volgare che stiamo ricercando; e se mai alcuno di loro… osasse vantarsene, ricordi se ha mai esclamato:
Per le plaghe di Dio tu no verras …”
[“De Vulgari Eloquentia”, cap. XIV, ed. BUR, 2005, con testo latino a fronte, pag. 107 ].
“… passiamo attraverso il vaglio Aquileiensi e Istriani, che, accentando bestialmente, emettono: Ces fas tu ? [il famosissimo Ce fastu che ha dato il titolo polemico ad una rivista di lingua friulana]. E, insieme con questi, via tutte le parlate di montagna e di campagna, che sempre si sentono dissonare, per irregolarità di pronuncia, dalla lingua di chi abita nel centro della città…” [ibidem, cap. XI, pagg. 89 – 91].
Ora, la schizzinosità un po’ esagerata di Dante era dovuta al suo scopo di poter ottenere un italiano aulico, veramente degno di una lingua letteraria italiana, e non come qualcuno pretende al fatto di non considerare italiano l’idioma friulano o, come egli lo qualifica, “aquileiese”. Tanto è vero che se la prende pesantemente con tutti i linguaggi italiani, toscano compreso. Per noi, ciò che è qui rilevante è la differenziazione allora presente fra i dialetti, ma anche la reciproca comprensibilità, già sussistente, di una lingua letteraria comune all’intera penisola. Un lavoro ben più scientifico viene compito dal linguista tedesco Rohlfs, il quale confrontò in un suo accuratissimo saggio i vari dialetti italiani, scoprendo anche affinità sorprendenti, fra determinati accenti o suoni in dialetti di regioni molto diverse, come Piemonte e Sicilia. Sfortunatamente, non ho il testo, pubblicato a suo tempo dall’editrice EINAUDI, e non posso citare alcunché, ma invito le persone interessate a leggere quel lavoro, veramente interessante.
Studiare una lingua, per individuarla come tale distinta da altre, richiede in ogni caso un metodo comparato: non basta studiare quella che interessa, vederne le differenze dalla lingua nazionale o ufficiale, e proclamarla per ciò stesso una lingua a se stante. Occorre confrontarla con i linguaggi circostanti: per esempio, per capire se il friulano è lingua a sé, o se lo sloveno non è una variante del croato, non basta segnalare delle differenze dalla lingua ufficiale: il che è troppo facile; né creare una grammatica seduti al tavolino sulla base di frasi staccate. Occorre confrontare i termini, nelle loro radici e nelle loro desinenze o nei rispettivi suffissi, cercarne l’etimologia; confrontare la fraseologia e la sintassi, i modi popolari di dire, i proverbi ecc. (lavoro fatto ad es. da Ostermann relativamente alle frasi e alle usanze); studiare gli scritti in quel particolare linguaggio. Solo quando prevale la differenza in ogni settore, si può parlare di lingua a se stante. Non credo che studi così accurati siano mai stati fatti sul friulano, visto soprattutto già in partenza come lingua, ancora prima che ciò sia stato dimostrato .
La diffusione dei linguaggi con sostrato celtico e venetico, o retico, su una struttura sostanzialmente latina o neolatina caratterizza quasi tutto il nord d’Italia e, soprattutto, la zona alpina, sia al di qua che al di là dello spartiacque. Non so se siano state studiate con accuratezza le affinità tra la lingua d’oc e il provenzale, i dialetti montani della Val d’Aosta, poi francesizzati; quindi gli idiomi romanci o ladini del Canton Ticino, dei Grigioni e della Valtellina, che si riallacciano almeno idealmente, se non fisicamente, al ladino del Trentino-Alto Adige (sommerso dal tedesco), a quello del Cadore, al carnico, per poi scendere verso sud nelle rispettive pianure, oppure seguire la catena dei Monti Velebit e delle Alpi Dinariche (il tergestino; il linguaggio istroromeno dei Cici dell’Istria interna, sulle cui origini propriamente vi è incertezza, vedendoli alcuni come immigrati “romeni” a causa dell’invasione turca, come gli Albanesi della Puglia e della Sicilia, o “Croati” del Molise; il dalmatico). Gianpaolo Sabbatini ha scritto un interessante saggio, non lodato dal linguista Pellegrini, ma pur tuttavia con molte verità sulla questione ladina (in senso lato) “I Ladini: come è nato e come si estingue un popolo”, ed. Pucci Cipriani, Firenze, 1976), che vede nei ladini addirittura una sorta di “impero linguistico” molto esteso, tanto da comprendere storicamente non solo la zona alpina ma le propaggini montuose fino al Danubio centrale e addirittura al Mar Nero (cfr. pag. 57). E propone di creare una regione “Rezia” che comprenda tutto il Trentino Alto Adige ed il Friuli – Venezia Giulia (la stessa Trieste dovrebbe farne parte), separata dal Veneto: ciò allo scopo di creare gli organi per una maggiore tutela dei linguaggi e della cultura ladina, intesa in senso ampio. Si tratta di una concezione un tantino “integralista”, ma che ha qualche argomento a suo favore, sebbene più sul piano storico, che non attuale .
In tutto questo che cosa c’entrano gli Sloveni ? Come ho rilevato in un mio commento, il termine è assolutamente recente, non superando la metà del secolo XIX: manca, tanto per dire, nell’elenco dei popoli dell’Impero Austriaco, anteposto al Codice Civile di Giuseppe II (siamo alla fine del XVIII secolo), dove si parla di “ducato di Carnìola”, ma mai di Slovenia. Noi, come i Tedeschi da cui abbiamo derivato il termine, distinguiamo tra “sloveni” e “slovacchi”, ma nelle rispettive lingue e, soprattutto, nello slovacco il termine che li indica è “slovenski”. Non spetta sicuramente a noi il diritto di qualificare gli uni o gli altri come veri “slovenski” o “slovenski” autentici, ma essi, prima di avanzare pretese di arcaicità di circa 2500 – 3000 anni, farebbero assai bene a qualificarsi con maggior precisione. L’idea che essi fossero presenti in Italia già prima di Cristo è pura presunzione, la classica “boria delle Nazioni” che Vico aveva severamente criticato nella sua “Scienza Nuova”. Quanto all’altra tesi, di un loro arrivo insieme ai Longobardi o immediatamente dopo, è smentito da Paolo Diacono che, ovviamente non cita mai gli Sloveni, ma qualifica alcune popolazioni che avevano invaso il Ducato del Friuli passando da Cividale, “latrunculi sclavorum”, ovvero una banda di razziatori al seguito degli Avari, prontamente sterminata. Lo stesso vale perulteriori episodi ricordati nella “Historia Langobardorum”, di cui uno riguarda una manovra fino a “Lauriana” (forse l’attuale paese di Lavariano, tra Palmanova e Pozzuolo del Friuli). Altro documento, che viene dichiarato del IX secolo, il “Placito del Risano”, una sorta di verbale dell’assemblea alla presenza dei missi dominici carolingi, dice che gli Slavi vennero mandati in “luoghi deserti” propriamente non individuati (forse il Canal del Ferro o la valle del Natisone). Nulla prova che essi potessero rimanere sul territorio istriano in misura rilevante. Ma allora gli Sloveni d’oggi quando arrivarono ? probabilmente alla spicciolata: una parte d’essi più imponente venne trasferita dall’Istria anche in Friuli dopo vari fenomeni di peste che lo spopolarono, ma si italianizzò ben presto, tanto da lasciare tracce solo nella toponomastica. Più recentemente arrivarono con l’espansione di Trieste che richiese l’importazione di minatori nella zona delle cave carsiche (es. specifico: l’attuale Dolina, Bagnoli della Rosandra), di artigiani, di contadini e così via. Ma è solo dopo il 1866 che l’Impero ormai austro-ungarico modifica la propria politica (usare militari di diversa provenienza in ciascun zona dell’Impero, per ridurre al minimo il rischio di accordi tra militari e popolazione - cfr. Giusti e Mazzini), e favorisce la slavizzazione sistematica di tutte le terre per noi orientali e per esso sud-occidentali, il che suscitò la sempre crescente resistenza dei Giuliani di sentimenti italiani, anche se magari di origine mista (cfr. Oberdan !), o addirittura totalmente slava (serba o croata). Ancora nel 1848 a Trieste un manifesto in lingua slava, incita gli “slavianski” (slavi), e non gli “slovenski” (sloveni) alla rivolta antiabsuburgica della città, segno che ancora non esisteva questa dizione .
Tutto ciò per chiarire un po’ le idee e combattere la pura propaganda che nello studio storico è sempre molto nociva, in quanto incita ai nazionalismi ed alle xenofobie o peggio alle xenomisìe (odio verso lo straniero) o al razzismo .



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MIEI DUE COMMENTI DI NATURA STORICA
#5 · Manlio Tummolo
09 agosto 2009, 18:59 Questo articolo è di estremo interesse, ma l'argomento meriterebbe di essere trattato in una lunga storia della seconda guerra mondiale. Gli USA si erano affermati già da tempo come grande potenza, al primo posto, con la fine della prima guerra mondiale. Già allora, non essendo stata toccata, a differenza di Europa e Asia, da alcuna distruzione, aveva potuto rafforzare al massimo la propria industria militare. Con la pace, tale produzione divenne superflua il che fu una delle cause reali, influendo sulla speculazione, della crisi del 1929. Non è un caso che tale crisi venisse definitivamente superata proprio con l'intervento nella II Guerra Mondiale, rimettendo in moto la macchina produttiva, ma già prima gli USA erano di fatto intervenuti sostenendo la Cina nazionalista contro i Giapponesi e contro i comunisti di Mao, poi con la "legge affitti e prestiti" a sostegno della G.Bretagna contro Italia e Germania. Evidentemente ciò non sarebbe bastato se il Giappone prima, Germania e Italia poi, sopravvalutando le proprie capacità industriali e militari, non avessero attaccato per prime. Ciò confuta la propaganda secondo la quale gli USA sarebbero intervenuti per "liberarci" dal fascismo, idea abbastanza balzana, se si pensa che la guerra è stata iniziata dal Tripartito, per cui gli USA potevano semmai ben temere di vedersi Giapponesi sulla costa occidentale, Tedeschi (già arrivati in pochi nella Groenlandia, allora danese)su quella orientale. Al governo USA, tali atti di guerra creavano una situazione a loro favore. Poiché le forze giapponesi si persero in tutta l'Asia orientale, senza concentrarsi solo contro gli americani, e le forze tedesche contro i Russi, gli Americani ebbero buon gioco nel mobilitare tutte le proprie forze industriali nella guerra, battendo separatamente i due avversari maggiori (l'Italia notoriamente contava poco). Perché dunque l'uso della bomba ?
#6 · Manlio Tummolo
09 agosto 2009, 19:14 La sperimentazione della bomba atomica aveva propriamente dimostrato, come ben indicato da BELLAVITA, solo alcune caratteristiche esteriori della nuova arma, ma gli effetti su esseri viventi, sulle città, non erano conosciuti; si sarebbe anche trattato di vederne gli effetti a lungo termine. Il governo USA non vide, dunque, l'ora di adoperarla in "corpore vili", lanciandola su due città giapponesi: ciò, sia al fine di troncare una resistenza che, comunque, si sarebbe dimostrata dura (era proverbiale la caparbia combattività dei soldati nipponici, dei quali alcuni furono ritrovati anni dopo, ancora in assetto di guerra, nella giungla; ma soprattutto occorreva dimostrare all'URSS chi fosse la prima potenza sul piano tecnologico, visto che la Gran Bretagna, ancorchè vincitrice, era uscita pesantemente ridimensionata dalla guerra, e vittoriosa solo grazie all'alleato USA. La lotta con la Germania ne aveva rivelato molti punti deboli, e contro i Giapponesi la Gran Bretagna era ridotta a mal partito, col rischio di perdere l'intera India. Solo contro gli Italiani era riuscita a risultati positivi e prestigiosi. L'URSS, ancorché semidistrutta nella sua parte europea, aveva però immense risorse minerarie ed un esercito numericamente enorme. Di qui, la volontà degli USA di far vedere, utilizzando il vinto ma non schiacciato Giappone, tutta la propria devastante distruttività. Così cominciò a guerra fredda, che Hitler aveva ben previsto, ma senza capire che, finchè rimaneva in piedi, era lui il Nemico n. 1 da combattere ed annientare, da parte degli Alleati .
    
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